Per chi è stufo di trattare una delle sfide politiche più importanti dei nostri tempi con la profondità di analisi di una partita di freccette al bar sotto casa, può avere senso ripartire dai fondamentali.
In questo clima da campagna elettorale perenne, con la questione migratoria che è diventata, una volta di più, arma di distrazione di massa – agitata per ottenere facili consensi da una parte e maneggiata timidamente per dare contro a qualsiasi mossa del governo dall’altra – può essere utile guardare le cose da un altro punto di vista e domandarsi, per esempio: si può davvero chiedere all’uomo di non spostarsi? Si può impedirgli di muoversi sulla terra per cercare un posto più adatto alla sopravvivenza propria e del proprio nucleo familiare? Si può imporgli di restare all’interno di confini più o meno recenti e più o meno arbitrari?
Per ragionare in questi termini, ci vengono in aiuto la storia dell’uomo, la sua evoluzione e la sua genetica: materie che per altro vanno a braccetto, perché ognuna spiega, completa e integra l’altra.
Il genetista Guido Barbujani, professore all’Università di Ferrara, è un’autorità in materia e ci spiegato, tra le altre cose, che la storia umana è una storia di nomadismo, “ancestrale e innegabile”. Da quando siamo scesi dagli alberi e abbiamo iniziato a muovere i primi passi sulla terra – prima malfermi, poi sempre più stabili – non ci siamo più fermati. Abbiamo iniziato a camminare e piano piano abbiamo popolato tutta la terra, a dispetto di barriere naturali e condizioni di viaggio che fanno sembrare i muri di oggi dei recinti di sabbia costruiti con paletta e secchiello.
E a proposito di migrazioni umane, Barbujani ama citare l’amico antropologo Marco Aime: “Basta abbassare lo sguardo – dice – per rendersi conto che in fondo alle gambe non abbiamo radici, ma piedi”: piedi che servono per andare in giro e che utilizziamo dall’alba dei tempi.
Il suo ultimo libro, scritto con Andrea Brunelli, si intitola Il giro del mondo in sei milioni di anni. In cui questa data indica – con ovvia approssimazione – un evento fondamentale: 6 milioni di anni fa gli uomini hanno mosso il primo passo, quello imprescindibile, che porterà pian piano alla colonizzazione di tutto il pianeta, cioè la discesa dagli alberi. Come mai è successo e cosa significa in termini evolutivi?
Sul come mai ci sono solo ipotesi. Secondo gli esperti di clima, in quel periodo, in Africa (tutte le prime tappe del nostro viaggio si svolgono in Africa, e questo ce lo dicono con chiarezza i fossili) l’ambiente è diventato più arido, e la foresta è stata in parte sostituita da spazi aperti. Possiamo immaginarci che, nella popolazione di antenati comuni dell’uomo e dello scimpanzé, qualcuno sia sceso dagli alberi e si sia avventurato nel nuovo ambiente, e qualcuno no. Dai primi discendiamo noi, dai secondi gli attuali scimpanzé. Questa differenza di approccio ha indirizzato tutti i passaggi successivi, e quindi ha avuto un significato evolutivo immenso. Abbiamo imparato a fare una cosa strana, camminare su due gambe anziché su quattro: su 250 specie di primati, nessuno fa come noi. Mettersi su due gambe non è uno scherzo, la stazione eretta provoca problemi, dai piccoli mal di schiena alle grandi difficoltà che hanno nel parto le femmine della nostra specie. Ma la disponibilità degli arti anteriori, che in quella fase sono diventati superiori, ci ha permesso di cominciare a manipolare gli oggetti come nessun altro, e probabilmente ha messo in moto la catena di eventi che ci ha portato, nel tempo, a sviluppare un cervello enorme, che sa fare un sacco di cose.
Il libro dimostra chiaramente che la tendenza a spostarsi e a cercare condizioni di vita migliori ci accompagna dagli albori del genere umano. Quali sono state le esigenze che hanno portato i nostri antenati ad affrontare viaggi anche molto difficoltosi? Quali sono state le prime rotte?
La vita sedentaria è un’invenzione recente (con i suoi lati piacevoli, ovviamente). Per milioni di anni e fino a 10mila anni fa, quando abbiamo cominciato a produrre il cibo con l’agricoltura e l’allevamento degli animali, bisognava procurarsi pranzo e cena andando a caccia e raccogliendo i frutti spontanei della terra. C’è ancora qualcuno che vive così; queste popolazioni sono semi-nomadi: sfruttano le risorse che ci sono e, quando finiscono, si spostano da un’altra parte. Non dobbiamo pensare a migrazioni con una direzione precisa: girando e girando, alcuni nostri antenati si sono trovati fuori dall’Africa, diciamo 70mila anni fa. In parte sono andati a ovest, verso l’Europa; altri a est, prima nell’Asia del sud, poi in Siberia, poi, forse 20mila anni fa, nelle Americhe, dove molto rapidamente si sono spinti fino all’estremo sud. Tutte queste migrazioni le abbiamo fatte a piedi, compresa quella nelle Americhe perché il livello del mare era molto più basso. Per colonizzare l’Oceania è stato necessario sviluppare tecniche di navigazione, e per questo lì ci siamo arrivati molto più tardi, negli ultimi 5mila anni. Ci è voluto parecchio tempo. Ma poco, rispetto ai milioni di anni in cui siamo rimasti in Africa.
Perché noi europei abbiamo la pelle chiara?
Questa è un’altra innovazione recente. La pelle non lascia fossili, ma secondo la massima esperta mondiale di queste cose, che si chiama Nina Jablonski, l’antenato comune nostro e degli scimpanzé aveva la pelle chiara, come ce l’hanno gli scimpanzé nelle regioni del corpo coperte di pelo. Per qualche motivo non ancora chiarito, la nostra discesa dagli alberi si è accompagnata a una perdita di pelo. Sotto il sole dell’Africa, qualunque mutazione del DNA conferisca un po’ di protezione è vantaggiosa, e quindi, con un meccanismo che ci ha spiegato Charles Darwin, cioè per selezione naturale, si sono affermate pelli sempre più scure. Una volta usciti dall’Africa, la tendenza si inverte: la vitamina D, essenziale nella gravidanza e nell’allattamento, viene attivata dai raggi del sole, e quindi c’è un vantaggio ad avere pelli chiare. Così, in Asia e in Europa, si diffondono mutazioni che schiariscono progressivamente la pelle. Quando ciò sia accaduto non è semplice da stabilire. Oggi però possiamo studiare il DNA dei fossili, e con un po’ di fortuna riusciamo a capire anche di che colore fosse la pelle di chi ha lasciato quegli scheletri. Così abbiamo visto che fino a poco tempo fa, diciamo 7mila anni o giù di lì, in Europa era comune una combinazione oggi insolita di pelli scure e occhi azzurri. Troviamo per la prima volta gente con la pelle chiara intorno a 12mila anni fa, sul Caucaso. Furono loro ad arrivare in Europa per migrazione, con il Neolitico, a partire da 10mila anni fa, e progressivamente rimpiazzano i primi europei.
Quindi senza migranti non avremmo avuto la pelle chiara.
Qualcuno non la prenderà tanto bene, ma è proprio così.
Come mai catalogare le razze umane si è sempre rivelato un fallimento?
Certe specie sono divise in razze – cioè in gruppi geografici distinti i cui membri sono tutti più simili fra loro di quanto assomiglino ai membri di altre razze. Lasciando perdere cani e cavalli, le cui razze sono state create dagli allevatori con i loro incroci, ci sono esempi di specie con razze biologicamente distinte (le lumache, gli scimpanzé) e specie senza razze (molti pesci e uccelli). Nell’uomo, il fallimento della classificazione razziale è dimostrato dal fatto che, per due secoli e mezzo, nessuno si è mai messo d’accordo su quante e quali siano le razze umane (per dire, secondo alcuni sono 2 secondo altri 200). Lo studio moderno del DNA dimostra che ogni popolazione contiene in realtà un campionario molto vasto della diversità umana, e che non è possibile tracciare linee sulla carta geografica per separare quelli fatti in un modo da quelli fatti in un altro. Mentre per quanto riguarda gli scimpanzé, che hanno quattro razze biologiche distinte, studiando certe regioni del DNA i primatologi riescono a dire con molta precisione da quale regione dell’Africa provengano, per il tonno pinna gialla è impossibile: nessuno può dire se un tonno pescato nel mare proviene dall’oceano Atlantico, Pacifico o Indiano, perché nei tre oceani le popolazioni hanno le stesse caratteristiche biologiche. Ecco, in questo noi siamo più simili al tonno. In pratica, esiste solo la razza umana.
Quali sono le differenze più evidenti tra le migrazioni attuali e quelle che hanno caratterizzato la storia dell’uomo fino a oggi?
Che oggi veniamo rapidamente messi al corrente di tutto quello che succede nel mondo, e la vastità dei fenomeni, fra cui i fenomeni migratori, ci fa sentire impotenti e ci angoscia, mentre fino a qualche anno fa i nostri orizzonti erano più ristretti, e (ingannevolmente) confortevoli.
Sulla questione migratoria si gioca una delle partite politiche più importanti dei nostri tempi. “Una partita”, come scrive lei: “in cui spesso i fatti contano meno dei pregiudizi e delle leggende”. Come si gioca a queste condizioni? E quali sono gli equivoci più diffusi?
Come si giochi la partita non lo so, altrimenti la starei giocando e la starei vincendo. L’equivoco più diffuso è pensare che siccome non siamo tutti uguali, allora vuol dire che siamo divisi in razze. Questo è quanto sostiene per esempio Piergiorgio Odifreddi, confrontando uomo e cane nel suo Dizionario della stupidità (Rizzoli 2016). L’idea è sbagliata e basta poco a smontarla. Nel cane, ogni razza si distingue dalle altre perché nel suo DNA ci sono milioni (milioni!) di differenze fissate, cioè regioni in cui tutti i pastori tedeschi sono identici fra loro e diversi dai tutti gli altri. Nell’uomo sono state confrontate 650mila posizioni di DNA fra 20 popolazioni, cioè si sono fatti più di 100 milioni di confronti, e non si è mai (mai!) trovata una differenza fissata. Oggi chi dice “Voi non volete le razze perché siete di sinistra” si dimentica di una cosa fondamentale: finché l’umanità ha continuato a guardare alle proprie differenze attraverso le lenti dei presupposti razziali non ha mai capito niente. Abbiamo cominciato a capire qualcosa sulla nostra evoluzione e sul nostro processo migratorio quando abbiamo smesso di catalogare gli esseri umani in gruppi che avrebbero dovuto essere omogenei al loro interno e diversi dagli altri, e abbiamo cominciato a concentrarci sulle differenze individuali (che fra parentesi sono l’88% di quelle globali). Oggi c’è poi chi la butta sul razzismo semplicemente per far breccia in un elettorato che ha bisogno più di un nemico da odiare che di un ragionamento da seguire.
Quali sono oggi i problemi più grossi di chi fa divulgazione scientifica?
Sono i problemi di chiunque cerchi di fare ragionamenti che non si possono concentrare in 140 o 280 caratteri: chi legge i nostri libri, chi viene a sentire le nostre conferenze, in genere la pensa già come noi, è già orientato a accettare il nostro punto di vista. Sarebbe importante superare il muro di diffidenza e incomprensioni che ci separa da chi, anche in buona fede, diffida dei vaccini o non crede che sia la xylella ad ammazzare gli ulivi; riuscirci è molto complicato.
Si può dire alle persone di non migrare?
Ragionare per slogan del tipo “Padroni a casa nostra” significa non voler fare i conti con la complessità del mondo in cui viviamo. È chiaro che costa fatica vivere con persone che hanno abitudini e costumi diversi. Ma finché nel mondo persistono le disuguaglianze economiche, ci sarà sempre gente che cercherà di venire da noi, o comunque di spostarsi per cercare condizioni migliori. È ciò che abbiamo sempre fatto.
*Linkiesta, 23 maggio 2019