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Parlando di case del futuro, nessuno meglio di un architetto di fama internazionale come Mario Cucinella può illustrarci l’abitare ideale, nel segno delle più alte aspirazioni alla bellezza e alla sostenibilità. Architetto, fondatore di Building Green Futures, organizzazione no-profit che promuove lo sviluppo sostenibile attraverso l’architettura green e la rigenerazione urbana, Cucinella ha anche stilato le Guidelines sustainable solutions. Design, construction, dismantling and reuse, linee guida per l’adozione di soluzioni sostenibili delle strutture per Expo Milano 2015. Il suo studio MCA –Mario Cucinella Architects– ha sede a Bologna e Parigi, dove abbiamo avuto l’occasione di approfondire la sua visione della casa, delle regole da seguire, della sua professione, dell’etica e della bellezza.
Oggi sei in Italia il riferimento più autorevole per l’architettura ecologica, sostenibile, che rispetta l’ambiente. Come sei arrivato a raggiungere questo traguardo?
La sostenibilità fa parte della mia storia, sono partito nel credere che la relazione tra architettura e ambiente fosse parte della nostra storia. Negli anni novanta non mi sono fatto influenzare dall’architettura che non avesse questi requisiti. Sono rimasto un po’ conservatore da questo punto di vista, fedele a quello che ritenevo un elemento fondante del nostro lavoro professionale. Ho anche pagato cara questa posizione, nel momento in cui il tema dell’architettura sostenibile non era di così grande attenzione, non abbiamo partecipato all’orgia di quegli anni novanta e duemila. Però ho costantemente seguito questa strada perché credo che questo rapporto secolare architettura-ambiente non finirà mai, nel senso che è uno dei temi fondanti dell’architettura dalle sue origini. Non si possono dissociare i temi del benessere e del buon vivere che un edificio deve avere per una visione solo estetica dell’architettura. Il punto che mi interessa non è avere il primato su questa tematica, ma averci lavorato e creduto ha costruito un bagaglio di competenze sul metodo e sul modo etico e pratico di lavorare sull’architettura che oggi mi viene riconosciuto. Questa è la ragione per cui oggi siamo qui e andiamo avanti.
Le Guidelines Sustainable Solutions, istruzioni d’uso relative alla costruzione e allo smantellamento dei padiglioni per Expo 2015 a Milano, sono state decisamente innovative. Ci spieghi perché?
Non erano mai state fatte in nessuna delle precedenti Expo. Era interessante in primo luogo che si fossero posti il problema. Il punto debole di quelle linee guida è che dovevano essere soggetto di una profonda relazione con i padiglioni sul riuso dei materiali, sulla temporaneità, sull’efficienza. Abbiamo dato una serie di indicazioni che credo siano state utili, che non avevano niente a che vedere con l’architettura, ma con il metodo. Non so quanto si sia potuto verificare che le cose siano state fatte davvero così. Erano delle buone pratiche che non erano obbligatorie, il che è un po’ un ossimoro!
Non è stata fatta una valutazione su quanto siano state applicate e siano risultate efficaci?
Lo ha fatto il Politecnico di Milano, ma sarebbe stato importante che anche noi potessimo dare un giudizio su quanto le cose fossero state seguite o meno. Era sostanziale che i padiglioni fossero smontati e rivenduti a pezzi, evitando le demolizioni selvagge e anche la valutazione delle emissioni e dei consumi energetici. Sono contento che ai padiglioni siano stati associati questi principi, perché sicuramente hanno generato contaminazioni e tutti si sono portati a casa qualcosa di questi principi.
Sostenibilità e rispetto per l’ambiente sono valori che si stanno progressivamente diffondendo in Italia in generale. Quali sono le regole che ritieni debbano essere imprescindibili da seguire per affrontare un progetto di architettura che sia sostenibile?
Affrontando un qualsiasi progetto di architettura per me è imprescindibile fare un’analisi dei dati climatici. Molto spesso gli architetti non sanno neanche qual è l’esposizione del loro edificio, da dove arriva il vento. Fa parte di quella cultura degli anni novanta e duemila in cui l’architettura era prevalentemente un fatto estetico, che ha generato anche realizzazioni drammatiche. L’attitudine alla sostenibilità significa essere consapevoli della responsabilità che si ha progettando un edificio. Le analisi climatiche sono fondamentali, sono elementi che possono guidare una progettazione empatica, se conosci bene il luogo e le sue caratteristiche la consapevolezza aumenta. Poi ci sono delle regole tecniche da rispettare per l’illuminotecnica, perché l’edificio sia a energia zero. Se stai progettando oggi devi pensare al futuro dell’architettura. Quello che mi dispiace di più è che spesso l’architettura è vista come una manifestazione quasi artistica, molto comunicativa e dove prevale l’aspetto estetico. Ma gli edifici devono rispondere a questioni molto più importanti dal punto di vista delle emissioni, dei risparmi energetici, che non sono però fine a se stessi. Qui non si tratta di trovare il numero magico, ma di fare qualcosa per vivere meglio, per costruire degli edifici che facciano vivere tutti meglio, che inquinino poco, perché, nella filiera del prodotto sono responsabili della emissioni che producono e della qualità della vita delle persone che ci abitano. Tutti elementi che concorrono a definire la sostenibilità.
È difficile fare oggi l’architetto ?
Stiamo andando in una direzione dove il nostro lavoro sta diventando sempre più difficile perché per esercitarlo non ti basta avere una visione estetica: non se ne può più di vedere edifici storti, a banana, un po’ stravaganti. Ti chiedi: ma perché? Ci si pone domande anche di autenticità dell’edificio, perché è fatto in un modo o in un altro. Gli edifici devono funzionare e questi sono gli elementi fondanti, devono essere dei bei luoghi per l’abitare. Quindi consapevolezza significa che stanno aumentando le competenze dell’architetto che deve rispondere a norme e leggi che non c’erano dieci anni fa. Si tratta di competenze che non posso “comprare”, come alcuni pensano: compro le competenze dell’ingegnere, dell’ecologista, del sociologo. Nel mio lavoro devo essere un po’ come Zelig di Woody Allen: un po’ travestito da ingegnere, un po’ da ambientalista, devo parlare di sociologia e partecipazione, progettare l’architettura. L’insieme dei valori fa parte del tuo modo di pensare l’architettura, della tua visione. E vale anche per il tema del green, tutti si lanciano sull’architettura green, ma molti non hanno capito che non è solo un valore estetico o di moda, ma è un valore fondante. L’estetica diventa una forma di rappresentazione di quell’etica. Al contrario di una Biennale di qualche anno fa che dichiarava ”Less esthetics more ethics” in un’epoca dove l’architettura era solo estetica e non etica, il passaggio oggi è proprio sulla consapevolezza della responsabilità. L’estetica è un concetto che cambia nel tempo. Oggi per me l’estetica, la bellezza, è anche quello che non si vede: il codice di lettura di una cosa bella è anche che dietro c’è qualcosa che non vedi, come il risparmio di emissioni di CO2. Mi piace quell’edificio perché so che ha anche un contenuto etico, gli do un valore, come a un qualsiasi prodotto, come allo yogurt: compro quello perché so che dietro c’è una filiera attenta al buono e al bello e quindi gli attribuisco un valore anche estetico che deriva dall’aspetto etico.
Come pensi si trasformerà o si evolverà il progetto dell’abitare nel futuro?
Stiamo facendo alcuni progetti di residenze come la casa 100K a basso costo. Il master plan di questi progetti è profondamente legato ad alcuni elementi ambientali che guidano la forma e la scelta dei materiali. Definiamo anche delle guidelines: siccome non seguiremo tutto il progetto, diamo alle persone le indicazioni da seguire per riuscire a raggiungere gli obiettivi di sostenibilità dell’abitazione. Non mi sono mai occupato, invece, del progetto di case private o di arredamento, non è il mio lavoro e non voglio entrare in quell’ambito. Mi sono fatto quest’idea: siccome la casa è un po’ la rappresentazione delle persone che la abitano non vedo perché debbano chiamare un architetto a farsi rappresentare soprattutto attraverso le scelte di arredamento. Le persone hanno le proprie idee ed è giusto che le esprimano attraverso le proprie ambizioni e volontà: se uno vuole in casa un divano finto leopardo è giusto che lo metta.
Che rapporto hai con la domotica, l’ automazione nella casa, internet of things, gli oggetti che comunicano e interagiscono con le persone?
La domotica spesso è complicata: il fatto che si apra o chiuda una persiana automaticamente mi sembra una fatica enorme che ti impedisce anche di imparare come si fa a gestire una casa, Certi aspetti mi sembrano un po’ estremi. Quello che mi sembra interessante, invece, è che ci siano degli strumenti che dialogano con te perché possono rendere più efficiente il sistema: penso alla lavatrice che parte quando l’energia costa meno, il frigorifero che ti dice cosa comprare nel periodo giusto, oggetti che sono dentro una rete di informazione e ti aiutano a fare scelte corrette. Trovo molto interessante questo sviluppo della tecnologia digitale con elementi che dialogano. Siamo a uno stadio ancora un po’ primitivo, all’inizio dell’era digitale, ma sono tutti strumenti in evoluzione.
Com’è la tua casa e la tua relazione con gli ambienti?
Ho abitato per tanti anni in un appartamento e l’ho trovato molto frustrante. Quando chiedi alle persone: “come ti immagini la tua casa? “ o “qual è la casa dove vorresti vivere?” non viene certo in mente di dire “due camere, un cucinotto, un bagno e un corridoio”. Ovviamente nessuno dice così. Magari se hai una vita intensa di relazioni vuoi una casa dove il salotto è molto più importante di tutto il resto oppure se sei un grande cuoco, la cucina è il luogo più importante dell’abitazione. Ho “subìto” varie case poi finalmente ho trovato uno spazio grande, un loft in un capannone di tre unità di cui ne ho una, dove ho deciso come gestire il mio spazio: non c’era una suddivisione tipologica -parola terrificante!- e quindi oggi ho una casa dove non ci sono pareti, come fosse il palco di un teatro. C’è il banco della cucina, la parte salotto, tutto insieme. Non mi piacciono le divisioni. Ci sono anche le camere da letto, ma sono tutte trasparenti. Mi piace stare a letto e vedere la luce e il resto della casa. Ho trovato una sorta di rappresentazione di quello che per me è l’abitare attraverso uno spazio non convenzionale. Ognuno dovrebbe poter realizzare le proprie esigenze manipolando lo spazio che ha intorno. Questo principio è stato sempre negato perché ci sono stati i bravi normatori che hanno stabilito qual è la superficie ideale della camera da letto e le regole per tutti gli spazi della casa. È invece il modo con cui abito che definisce lo spazio. O dovrebbe. E non lo spazio che mi obbliga ad abitare in un certo modo. I costruttori non l’hanno ancora capito. Piangono miseria perché il loro modello abitativo ormai è talmente dissociato dalla realtà che non lo vuole più nessuno. E non fanno una riflessione dal punto di vista sociologico per capire come sono organizzate oggi le famiglie e come si sono trasformate. Forse pensano che a un certo punto si tornerà al modello di casa degli anni settanta con cucinotto, tinello, dispensa, corridoio eccetera. È un modello completamente superato dalla realtà della società. Strati sociali e culturali hanno espressioni diverse. Il fatto è che il mondo dell’edilizia non ha intercettato le trasformazioni del modello di famiglia e non ha investito un euro per capire il mondo in cui si trova.
Dall’Osservatorio sulla Casa questo quadro è abbastanza chiaro: forse manca un’informazione più diretta capace di arrivare anche al mondo dell’edilizia?
Sì, non leggono, continuano a pensare di poter andare avanti facendo quello che sanno fare ma così non si va da nessuna parte. Il paradosso è che l’edilizia è al palo, ma ci sono sei milioni di italiani che non hanno la casa e vorrebbero averla. Ma le case non ci sono, ci vorrebbe un’edilizia più flessibile che non c’è. I ragazzi fanno fatica a trovare casa, e menomale che l’Italia ha una struttura di famiglie che argina questo problema. In Olanda dove i ragazzi escono a sedici anni da casa non puoi non intercettare questo fenomeno e costruire delle opportunità. Qui invece non si sta facendo questo genere di analisi.
Dall’Osservatorio sulla Casa emerge anche il desiderio di avere una relazione esterno-interno forte con la natura, avere degli elementi naturali che si integrano con la casa. Qual è nella tua casa la relazione con il verde?
Essendo stata un’officina la mia casa ha grandi vetrate. È nella periferia di Bologna, con davanti le colline. Abbiamo un cortile molto urbano e viviamo una parte della nostra vita all’esterno. La gente vorrebbe avere terrazzi su cui stare fuori, che significa, anche, stare nello spazio pubblico. Anche su questo tema abbiamo delle regole edilizie che vanno contro la nostra voglia di abitare. Abbiamo costruito delle macchine burocratiche dell’abitare. C’è un paradosso: invece di adeguare le norme alla società che cambia, le norme cercano di condizionare il cambiamento della società. Questo non può funzionare, devono capirlo anche i Comuni che investono tempo e carta per inventarsi le norme più assurde per la casa.
Sei ottimista che nel prossimo futuro ci possa essere un cambiamento delle regole per la casa nel nostro paese?
Questo Paese ha deciso che una delle sue attività principali è produrre decreti, leggi e norme anche per giustificare una macchina che costa una cifra spropositata. Dall’altra parte c’è un mondo che sta chiedendo meno regole e più flessibilità. Ogni anno, invece, viene prodotta una nuova direttiva urbanistica, nuove norme edilizie, un diverso regolamento comunale diverso da quello del comune che sta a cinquanta chilometri. Tutta questa gente si autoalimenta e autogiustifica creando questo sistema infernale per tutti, anche per loro stessi!
Guardando la ricostruzione delle zone terremotate in Abruzzo e nelle Marche, ad esempio, il paradosso è che avendo prodotto tanta strumentazione normativa oggi devono fare dei decreti per annullare quello che hanno fatto e nonostante questo non riescono a capire che con le leggi ordinarie non puoi trattare un evento straordinario come il terremoto. C’è da chiedersi dove sta il buonsenso. Quello che è certo è che la nostra burocrazia, fatta con molta accademia, spesso da persone che non conoscono nemmeno tanto bene il territorio, non risponde alla domanda della gente. Credo che non ci sia speranza con questo tipo di cultura.
E allora che si deve fare?
È il momento di fare un grosso cambiamento e questo avverrà perché la gente comincerà a pretendere il cambiamento. Non lo farà la politica, che non è in grado di interpretare il nuovo, ma la gente, come già ha cominciato a fare con l’uso temporaneo degli spazi. Piano piano il sistema dovrà rendere conto a queste richieste che arrivano dalla base. Il ruolo di tutti noi è importante per far capire che c’è bisogno di un cambiamento.
*Riportiamo l’articolo pubblicato su Lifegate.it