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Le città sono tornate al centro della crescita economica e in Italia oggi è Milano a incarnare con più successo questo fenomeno. È meno chiaro come stia cambiando il rapporto tra i centri in ascesa e le grandi piattaforme produttive del Nord. Milano non è mai stata una company town chiusa tra le sue mura. Anni fa denominai come città infinita il suo crescere orizzontale secondo un meccanismo proliferante che concentrava tra Malpensa e Orio al Serio il maggior numero di imprese, di capannoni, di addetti, di centri commerciali e di sportelli bancari. Un modello che ha raggiunto il culmine nel primo postfordismo.
Oggi la raccontiamo nel suo skyline verticale come parte di un’economia della conoscenza globale a base urbana, in cui le città paiono più connesse tra loro che radicate nel loro intorno territoriale. È poco utile indugiare solo in rappresentazioni da città-stato (Parag Khanna). Questa è solo una faccia della medaglia. Per capire la nuova Milano occorre guardare a cosa resta sia del Mi-To fordista (dov’era la Fiat al Lingotto c’è un centro commerciale, come all’Alfa Romeo di Arese) che nella piattaforma lombarda connessa a quelle veneta ed emiliana. Occorre scomporre e ricomporre il territorio della “vecchia” città infinita nel cambio di modello produttivo dal distretto alla piattaforma di area vasta. La “nuova globalizzazione” ha verticalizzato, selezionato e allungato le filiere, oggi sempre più simili a cluster che assemblano territori, produzione, servizi e tecnologie, i cui gangli operano simultaneamente in varie parti del mondo. Nella Brianza che alimenta il Salone del Mobile e nella meccatronica tra Lecco, Bergamo, Monza, il manifatturiero rimane nucleo portante di economie che diventano sempre più articolate e terziarie. Quasi loro malgrado.
Qui si coglie un primo rischio: le piattaforme produttive e i sistemi delle élite intermedie dei territori pedemontani, paiono subire la metamorfosi terziaria più come una contrazione del manifatturiero che come il possibile emergere di nuove industrie e di un modello economico più equilibrato sul fronte di mercati, consumi interni e sviluppo locale. Il ciclo delle medie imprese cresciute reggendosi su capitali e saperi propri, oggi di fronte ai grandi cambiamenti tecnologici e ai mutati scenari geopolitici, sta raggiungendo il proprio limite di sviluppo. Occorre pensare nuove modalità d’intervento e nuove istituzioni. Sul territorio tra le imprese cresce una sensazione di solitudine nell’affrontare scenari sempre più complessi, in un contesto che ha visto la densità del tessuto d’impresa rarefarsi sotto i colpi della crisi. Con Milano orientata a dare più attenzione alle sue connessioni verticali che orizzontali.
Nell’urbano regionale che va da Torino a Trieste, Via Emilia compresa, denso di città medie, il vero nodo è il rapporto tra saperi formali e contestuali, con un tessuto di istituzioni come i Politecnici, il Cnr, strutture di accesso alle risorse della ricerca e dell’innovazione e una rete forte di istituti professionali. Le imprese sono oggi stratificate in una élite che ha incorporato l’innovazione complessa, una base attestata sui saperi contestuali che rischia di subire la trasformazione, e una “pancia” mediana approdata alla piccola innovazione in cui si qualifica ciò che già si fa. Occorrerebbe agire su questo tipo di impresa per evitare che la velocità del salto tecnologico ne produca il downgrading lungo la scala del valore. Qui è importante anche il cambiamento che sta vivendo sui territori la rete dei corpi intermedi, affaticata nel costruire luoghi di intelligenza collettiva che le consentano una “diplomazia” delle relazioni verso Milano e tra territori. Ci sono nuovi protagonisti come le fondazioni, le utility, i gestori delle reti e le banche che si aggregano con logiche di area vasta.
A fronte di una economia in metamorfosi, la società è affaticata. Il welfare di comunità nella crisi ha tenuto, c’è un tessuto di terzo settore forte, la popolazione cresce, ma l’ascensore sociale si è inceppato come mostrano i dati sul crescere della povertà. Le partita Iva del lavoro autonomo di prima generazione e quelle di seconda generazione dei lavori terziari, non garantiscono più in modo automatico il riprodursi di un tessuto decentrato di ceti medi affluenti. Non bastano i numeri dell’export. La città infinita postfordista era la città dei due terzi inclusi, nel suo scomporsi e ricomporsi verticale occorre pensare Milano in rete con l’urbano regionale delle piattaforme produttive. Milano in una geocomunità capace di costruire nuovi equilibri sociali.
*Il Sole 24 Ore, 5 novembre 2019