Chiunque dichiari di avere certezze in questo momento rischia di sbagliare di grosso. Tuttavia qualche riflessione su come sarà il prossimo futuro, per chi fa impresa, è indispensabile. Anche se i dubbi sono ovviamente molti a partire dalla questione cruciale se la ripresa sarà, per usare il gergo degli economisti, a V o a U.
Ma, tralasciamo per un momento, gli effetti macro economici e cerchiamo invece di affrontare quelli sociali, di comportamento e di costume, quelli cioè che sono destinati a cambiare le nostre vite nel medio periodo e a determinare gli orientamenti di consumo. Come sarà la vita nel post covid? Il distanziamento sociale ci impedirà di entrare nei negozi e acquisteremo solo online? Entriamo nel secolo dello smart working? Non andremo più al ristorante o non inviteremo più gli amici il sabato sera a cena? O tutto tornerà come prima?
Si tratta di domande fondamentali per chi fa impresa, dalla cui risposta dipenderà cosa si decide di produrre e attraverso quali canali vendere. Sarà il Covid a dettare le nuove regole di consumo per il futuro? O non cambieremo per altri motivi e quindi anche le tipologie di consumo saranno diverse da quelle che ora stiamo immaginando?
Per provare a tracciare alcune ipotesi pensiamo sia utile partire dai tragici errori di valutazione compiuti in Italia nell’affrontare la crisi, perché l’errata percezione dei fatti rischia di portare gli operatori a compiere scelte che rischiano di rivelarsi strategicamente sbagliate.
• Il primo errore è stato di guardare solo il nostro ombelico e di raccontare quanto accadeva e accade all’estero con gli occhiali di casa nostra. La Svezia non chiude? Sono dei pazzi! L’Austria riapre? Se ne pentiranno. In Francia si torna sui banchi di scuola l’11 maggio? Una follia. La Germania e gli altri Paesi non chiudono le fabbriche? Solo perché da loro la diffusione del Covid è lontana di 15 giorni. Riaprono prima di noi. Silenzio. Per quanti giorni i media ci hanno raccontato che solo noi italiani avevamo capito tutto e che gli altri erano dei pazzi incoscienti? Eppure loro hanno già riaperto. Tutti. Il dubbio che noi forse abbiamo esagerato ci dovrebbe forse venire.
• La politica non ha ragionato su come risolvere il problema ma semplicemente su come cavalcare la paura a fini elettorali. L’assunzione di alcuni provvedimenti (come ad esempio la chiusura delle fabbriche) è stata più il frutto della volontà politica di far percepire che si privilegiava la sicurezza, che non la volontà di garantirla effettivamente. L’impedire di andare a correre sui prati rispondeva allo stesso scopo, poiché è evidente che in mezzo ai prati è difficile incontrare foglie d’erba che ti contaminino. Idem per l’impedimento alle persone che vivono sotto lo stesso tetto di passeggiare fianco a fianco. Sarà più facile che marito e moglie si contaminino dormendo sullo stesso letto che non andando a fare due passi insieme. O no?
• La comunità scientifica non è mai esistita. Sono apparsi ed hanno spadroneggiato nei media alcuni scienziati, che, a seconda delle loro convinzioni personali hanno imposto ad una politica incapace di svolgere il proprio ruolo, delle scelte che, ad un certo punto sono diventate insensate o che non sono ancora state spiegate. Ancora più grave è stato affidarsi esclusivamente agli infettivologi e epidemiologici. La concentrazione dell’attenzione su questi aspetti ha prodotto come risultato che sono, per esempio, aumentate le morti per infarto e sono esplose le violenze contro le donne tra le mura domestiche. Morti di serie B? La salute è un concetto complesso e il calcolo delle vittime va fatto sul medio, lungo periodo calcolando il complesso delle vittime, non solo su quelle che permettono al prof.Burioni di vendere i suoi libri.
• La sanità è stata gestita in maniera approssimativa, ma soprattutto non ha tenuto conto che i centri di infezione reali (quelli pericolosi) erano ospedali e case di riposo per anziani. I numeri dicono che se ci si fosse concentrati a gestire bene quelle situazioni, il totale delle vittime non sarebbe andato oltre a quello delle medie stagionali. Mentre si costruiva l’inutile e inutilizzato ospedale in Fiera a Milano, costato fior di milioni e resosi utile solo per l’affollata cerimonia inaugurale, nelle case di riposo nessuno controllava nulla.
• La pandemia mediatica. Questa è stata la prima pandemia ai tempi dei social e della comunicazione a distanza. Proviamo a immaginare se questa crisi fosse capitata prima dell’era dei telefonini e di internet. Avremmo assistito a cose come quelle che abbiamo visto in questi mesi? A giornali costretti ad inseguire il flusso di notizie dei social? Persone sole sarebbero state rinchiuse in casa come è stato fatto in questa occasione? Viene quasi il sospetto che pandemia virale e pandemia mediatica da social siano andate sommandosi creando un mostro che si è autolaimentato creando panico e perdita delle reali dimensioni del problema.
Se questi sono i fatti cosa ci dobbiamo aspettare per il futuro? Un’epoca di distanziamento sociale che ci farà andare in spiaggia in mascherina, uno alla volta magari dentro quelle orribili gabbie di plexigas che abbiamo visto nei giorni scorsi? Non andremo più a un concerto? Non andremo più a cena con gli amici? Andremo tutti a vivere, come dice l’architetto Boeri, in borghi sperduti senza scuole, asili, ospedali, vita sociale? Dovremmo impostare il nostro futuro secondo dei parametri chiamati new normal che tradotto significa che faremo vite isolate dal mondo?
Nelle prime settimane forse si, ma poi? Ricordate la tragedia del Ponte Morandi, quando per mesi i giornali scrivevano solo di ponti e cavalcavia e le uniche cose che facevano le amministrazioni pubbliche era fare controlli a tappeto? Tutto svanito, passati pochi mesi siamo tornati a un tale normal che un altro cavalcavia è crollato nel quasi silenzio generale dovuto al fatto che il film che si stava trasmettendo in quel periodo era quello del coronavirus. Ricordate l’aviaria, la mucca pazza e le altre infinite tragedie di cui non si parla più da anni ma che allora avevano ridotto i consumi di quei prodotti in maniera drammatica?
Ma il Coronavirus è stato un’altra cosa, non paragonabile a queste, si dirà. Provo ad immedesimarmi in una situazione estrema, cioè l’essere un anziano ricoverato in una casa di riposo. Pensate che a 80 anni sarò più felice a vivere sei mesi in più senza vedere mai i miei figli e i miei nipoti o che preferisca correre il rischio di morire sei mesi prima ma vedendoli e potendoli abbracciare? E se ho vent’anni e non corro alcun rischio, dovrò rinunciare ai concerti o a formarmi in una università senza che ci sia nemmeno uno straccio di motivo valido? E se vendo i miei tessuti in giro per il mondo, basterà farglieli vedere dallo schermo di un pc o non dovrò andare a trovare il mio cliente per farglieli toccare e raccontargli di persona il perché sono così straordinari?
Se guardiamo già oggi le spiagge dei laghi della Baviera, i negozi dell’Austtria o i bar svedesi, comprendiamo che, certo, la prima fase di rientro sarà da new normal, ma nel giro di pochi mesi si tornerà rapidamente ad un normal. Ma una differenza profonda ci sarà, e questa sì cambierà il nostro modo di produrre, vendere e consumare. L’unica vera differenza sarà infatti che saremo tutti tremendamente più poveri. E quindi più sociali, perché la povertà rende tutti più “sociali” e faremo più “comunità”. Perché nella povertà conteranno le comunità solidali, le forme di cooperazione e di aiuto solidale.
Ci concentreremo su beni essenziali, torneremo all’uso delle biciclette non per ecologismo ma per risparmiare, avremo meno ristoranti stellati e più osterie, berremo vini meno raffinati ma ugualmente di qualità, utilizzeremo le nostre vecchie auto diesel, e, probabilmente, visto che l’Italia è stato il Paese che ha commesso più errori in assoluto nella gestione “economica” della crisi, assisteremo a una massiccia ondata di migrazione. Insomma, il vero new normal riguarderà il fatto che torneremo poveri. E più saremo poveri più aumenteranno anche i rischi – come ha scritto bene Antonio Polito sul Corriere della Sera di ieri – di crescita di nazionalismi e populismi che porteranno a guerre che ci auguriamo saranno solo commerciali.
Ma, ricchi o poveri, in pace o in guerra, per quanto riguarda il nostro modo di essere, di comportarci, torneremo ad essere quelli che siamo sempre stati da millenni. Animali sociali.
Anche perché, nel bene e nel male, l’animo umano ad un certo punto è in grado di accettare, magari con dolore, tutto. Compreso il fatto che siamo umani e, in quanto tali, mortali. Di coronavirus, di ebola, di polmonite, di tumore, di violenza, di Aids, di overdose o di mille altre malattie che, per nostra natura, non smetteremo mai di combattere. Ma come il Coronavirus ci ha insegnato, non appena si sconfigge una malattia, che si chiami Aids, Ebola o Sars, ne arriva un’altra. E la folle pretesa della scienza di sconfiggerle tutte e arrivare all’immortalità si sta rivelando per quella che è, una follia totalitaria. Che come tutti i totalitarismi può durare anche a lungo, ma non in eterno. Che ci si creda o meno, solo Dio e non l’uomo può dare la vita eterna. E il sogno dell’immortalità appartiene solo a chi, ideologicamente, non è in grado di accettare l’intrinseco mistero della natura umana.