Qualcuno ritiene che con le riaperture delle attività produttive e commerciali la vicenda coronavirus sia destinata a rientrare e a riportarci all’interno un quadro di “normalità”. Purtroppo non sarà così. Non voglio qui addentrarmi in previsioni, che rischierebbero di essere smentite nel giro di pochi giorni, sulla fine o sulla ripresa del contagio, così come voglio evitare recriminazioni su cosa si doveva o si sarebbe dovuto fare per affrontare meglio l’emergenza. La collezione di riflessioni di Luca Vignaga contenute in questo agile volume – pubblicate in anteprima su VeneziePost dal 28 aprile al 15 maggio 2020 – non riguarda l’attualità e le polemiche di cui sono infarciti tutti i giornali, compreso quello di cui sono editore e che ha ospitato per due settimane i suoi interventi; sono invece riflessioni che guardano oltre, a una dimensione ampia e profonda delle implicazioni che l’apparire del virus ha comportato e comporterà per tutti noi nei prossimi anni.
E sono due le implicazioni che mi sembrano emergere dalla lettura sistematica dei testi di Vignaga: la prima è che la natura della guerra contro il coronavirus è del tutto nuova anche rispetto all’apparire di altri conflitti e di altre epidemie del passato più o meno recente; la seconda è che, più che dare risposte, recuperando l’elemento di forza della filosofia socratica, Vignaga mette al centro l’esigenza di porre le giuste domande, premessa indispensabile per sperare di trovare risposte almeno parzialmente adeguate.
Sul primo punto, cioè sul fatto che quella del Coronavirus rappresenti una novità per cui si può davvero usare il termine “epocale”, va sottolineato che la Storia ha visto decine e decine di altre pandemie che hanno provocato numeri di vittime infinitamente superiori a quelle registrate con il coronavirus. Stiamo parlando di un numero che, alla fine di questa vicenda, potrebbe aggirarsi sui 400-500.000 morti, rispetto ai 20-50 milioni della Spagnola negli anni 1918-1919, periodo nel quale, peraltro, la popolazione mondiale era meno della metà rispetto a quella attuale. Perché allora, quello che a distanza di secoli potrebbe essere trattato come un episodio irrilevante e marginale, sarà invece ricordato come un punto di svolta nella Storia?
Ci sono a mio avviso tre fattori – che Vignaga ben sottolinea – che determinano questo giudizio. Il primo ha a che fare con l’interconnessione globale che caratterizza la nostra epoca, figlia, da una parte, del boom tecnologico, e, dall’altra, dell’impressionante sviluppo che ha avuto la mobilità di merci e persone a livello globale. Informazioni, merci e persone, prima della pandemia, viaggiavano infatti da un punto all’atro del globo senza sosta e con una rapidità sconosciuta nelle precedenti epoche storiche. Il secondo fattore riguarda la moltiplicazione delle piattaforme di trasmissione delle informazioni dovuta al fatto che, attraverso i social network, ogni singolo individuo è diventato un produttore di notizie e commenti. Apparentemente una democratizzazione dell’informazione; in realtà, si è trattato dell’eliminazione di quel filtro a idee e opinioni indispensabile per evitare due fenomeni degenerativi delle democrazie: l’utilizzo delle fake news con finalità distorsive dei processi democratici e l’avanzare di neopopulismi basati sull’utilizzo strumentale degli elementi emozionali di alcune notizie. Il terzo fattore che determina l’elemento di novità di questa pandemia riguarda l’esorcizzazione della morte attraverso la diffusione del mito dell’immortalità, alimentato in questi anni dall’impressionante salto in avanti della ricerca scientifica.
Ebbene, il mix di questi tre fattori, si è rivelato una miscela esplosiva per il sentimento che più determina il nostro modo di vivere e i nostri comportamenti: la paura della morte. Da lì nasce la paura di quel nemico invisibile che si chiama contagio. Che si nasconde dietro ogni curva, dietro ogni volto, dietro ogni contatto con un altro essere umano. Perfino dietro il volto del padre, del figlio, della persona amata. Una paura che non ha trovato barriere né nella consapevolezza che l’umano, in quanto tale, è mortale e se non sarà il coronavirus sarà altro a mettere fine alla sua esistenza, né in una gestione dei flussi informativi come abitualmente si faceva per realpolitik prima dell’arrivo dei social media, né di barriere nazionali che – ammesso che potessero servire a qualcosa – solo dopo la diffusione del virus sono state inutilmente erette in fretta e furia.
Di fronte a queste novità, non solo e non tanto la politica, ma anche la cultura e le classi dirigenti sono capitolate, rivelandosi più fragili soprattutto laddove più forti erano quei tre fattori che abbiamo indicato. E cioè negli agglomerati urbani metropolitani popolati dai figli della globalizzazione, delle culture scientiste e modernizzatrici e delle relazioni virtuali coltivate via social network. Non a caso la maggior resistenza alle politiche dell’isolamento individuale si è sviluppata soprattutto nelle periferie e nelle campagne dove sono più radicate culture laiche o religiose più vicine all’idea di “sacrificio” e di legami comunitari. Perfino più negli anziani, che le difficoltà della vita le hanno vissute, che nei giovani, figli di tempi fortunati dove nemmeno stragi mafiose o terrorismo hanno turbato i loro sogni. Basti pensare alla reazione completamente diversa di contesti giovani e metropolitani come quello di New York, Londra e Milano, da quelle di stati “periferici” degli Usa, delle campagne inglesi o di regioni italiane come l’Emilia Romagna e il Veneto. Laddove la “modernità” aveva vinto, il virus ha colpito psicologicamente in maniera più forte.
Che il coronavirus sia stato finora una pandemia caratterizzata più da un aspetto psicologico che sanitario lo dimostrano non solo i numeri sopra citati sulle effettive morti provocate in confronto ad altre epidemie, ma anche il fatto che, senza dare giudizi di merito, si può constatare come le diversità di approccio alla diffusione della pandemia non abbiano provocato differenze sostanziali nel numero di decessi: che si sia affrontata la questione con i modelli di lockdown “militare” all’italiana o alla cinese, oppure di lockdown dolce, all’inglese o alla svedese, il numero di vittime per milione di abitanti è stato pressoché identico.
Ma che il numero di vittime sia stato largamente inferiore che in altre occasioni nulla toglie al fatto che le conseguenze di questa vicenda rischiano di essere ampiamente superiori. Anzi, tenderanno ad amplificarsi ulteriormente. In che direzioni? Davvero difficile rispondere ora.
Il merito del lavoro di Vignaga sta nell’affrontare questa domanda in un modo totalmente diverso da quello utilizzato da chiunque altro in questi mesi. Ovvero, ponendo a sua volta altre domande. E non lo fa per sottrarsi alle possibili risposte ma perché lui sa bene, come noi, che probabilmente siamo solo all’inizio di una “rivoluzione” globale che investirà molteplici aspetti del nostro vivere sociale, economico e politico. E che gli esiti di questo processo saranno lunghi. Cosa accadrà dopo il coronavirus? Nessuno di noi può affermare di saperlo.
Ecco perché, allora, le domande che Vignaga pone sono essenziali per costruire il futuro. Perché se il terreno sul quale poggiavamo è franato, fuggire per rifugiarsi nel luogo che ci sembra in questo momento più sicuro potrebbe rivelarsi fatale. E tra questi luoghi ce ne sono due particolarmente pericolosi. Quelli della teoria del “tutto tornerà come prima”, che è rassicurante ma non fa i conti con il salto di civiltà che questa crisi ci farà compiere, e quello del “catastrofismo” da fine della storia, che, in egual misura, rassicura i pessimisti. Se, per il primo caso, basterà leggere anche solo alcuni dei capitoli di questo volume, per capire come affrontare il secondo bisognerà leggerli tutti.
Perché se è vero che l’umanità ha superato sempre, in qualche modo, tutti i momenti orribili della storia, dalla Prima alla Seconda guerra mondiale, dai totalitarismi alla Guerra Fredda, l’unica certezza che abbiamo è che supereremo anche questo, non senza vittime, difficoltà e dolore. Ma il come supereremo questo momento è cruciale evitare almeno alcuni degli errori (e degli orrori) che nella Storia si sono visti. Ecco allora che, se sapremo porci le domande giuste, se sapremo compiere fino in fondo l’esercizio socratico del “domandare”, forse riusciremo anche ad esercitare quella aristotelica phronesis che ci permetterà di gestire con consapevolezza il futuro.
Non sarà un fideistico “affidarsi alla scienza” a risolvere i nostri problemi. Anzi. Questi mesi sono stati utili almeno per capire che non esiste “una scienza” ma esistono una molteplicità di studi, ricerche, opinioni, punti di vista spesso divergenti e in conflitto tra loro. Il dominus delle scelte della nostra vita non può essere chi ha una visione, magari lucidissima, ma assolutamente parziale della natura umana. Il nostro futuro non può altro che essere affidato a chi sa ben operare conciliando saggezza e vita pratica, cioè, tornando ad Aristotele, alla politica. Una politica che sa guardare l’uomo nel profondo, attraverso la letteratura, l’arte, la filosofia, e, certo, anche la scienza. E alla fine si è visto che, per ripartire, alla politica, come saggia conciliazione di interessi e punti di vista diversi, si è dovuti tornare.
Ora si tratta, continuando a compiere l’esercizio che Vignaga ci chiede di impegnarci a fare, di interrogare, di interrogarci e di richiedere alla politica di avere quello sguardo lungo e profondo che diventa necessario in momenti come questi.
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