Che il Veneto sia in declino ormai è un dato certo. I primi a denunciarlo pubblicamente, lo scorso anno, sono stati i vertici di Confartigianato, l’associazione presieduta da Agostino Bonomo, che ha evidenziato lo storico sorpasso dell’export emiliano su quello Veneto. Una tendenza che poi si è via via consolidata vedendo la regione guidata da Stefano Bonaccini staccare quella guidata da Luca Zaia in maniera sempre più netta. I dati del primo trimestre di questo anno orribile confermano un arretramento dell’export veneto assai più marcato di quello emiliano.
La curva demografica ha seguito lo stesso percorso, vedendo nel corso degli ultimi anni il Veneto diminuire in maniera netta la sua popolazione mentre l’Emilia Romagna è cresciuta costantemente. Non numeri stratosferici, ma il differenziale, anche su questo fronte si sta facendo assai importante. E, come spiegato più volte dal prof. Paolo Gubitta, il dato più clamoroso riguardala fuga dei cervelli e dei talenti, che non si sono diretti solo a Londra o Berlino, ma da alcuni anni anche nella regione della Motor e della Packaging Valley.
Il Veneto declina dunque, mentre l’Emilia è cresciuta e regge ora molto meglio la crisi. E questa forza emiliana, radicata in un solido tessuto industriale e in una forte apertura culturale, si manifesta ora anche nei confronti di Milano, metropoli cresciuta in maniera esplosiva fino alla crisi provocata dal Covid, ma che sta subendo in questi mesi un tracollo che, nel primo semestre del 2020, l’ha portata non solo a essere (tutt’oggi) una città desertificata ma anche a perdere popolazione.
Quali sono le cause della debacle veneta, del crollo milanese e della tenuta emiliana. Nel primo caso va detto che da tempo il Veneto, al pari del Friuli Venezia Giulia, non è più, da tempo, attrattivo. Imprese troppo poco orientate alla crescita, assenza di multinazionali innovative, campagne autonomiste che se rincuorano ed esaltano gli elettori di Zaia tendono però a far percepire la sua regione come poco accogliente nei confronti di chi viene da altre realtà, assenza sia di collegamenti veloci che metropolitani. Insomma, nella ex locomotiva del Paese, il vuoto di idee della classe dirigente politica (tutta) e la fragilità culturale del tessuto imprenditoriale sta provocando lo spopolamento di una regione tornata ad essere terra di emigrazione.
Ma, da qualche mese, non va meglio a Milano, città che per un lungo periodo sembrava destinata a diventare il faro per l’intero Paese. Ma più Milano cresceva, più la classe dirigente milanese sembrava ubriacarsi dei successi raggiunti ed ha iniziato a perdere le dimensioni della realtà. Una realtà circostante fatta di manifattura e di fabbriche, componente complementare a quella dei servizi, rispetto ai quali Milano è sempre stata la vera capitale. Ma i servizi, a differenza della manifattura, sono immateriali, eterei, fragili. Lo scontro con il fenomeno del CoronaVirus ha fatto sì che mentre nelle campagne, terre dedite al sacrificio, la popolazione abbia reagito tornando al più presto al lavoro nelle fabbriche, Milano, depressa e impaurita, pensandosi moderna, si è cullata nei miti dello smart working e del #iorestoacasa, scoprendo poi tutte le contraddizioni di un modello innaturale di relazione tra gli umani (quello tecnologico) che apparentemente garantisce sicurezza, mentre in realtà determina fragilità, panico e depressione psicologica. Milano si è così svuotata ed è rimasta senza vita. E questo è accaduto non perché sia stata colpita più di altri dal CoronaVirus (che invece si è manifestato pesantemente in alcune aree della bergamasca e del lodigiano) ma perché ha avuto paura. È una metropoli che vive di relazioni, senza di esse, muore.
L’Emilia, al contrario delle due regioni confinanti, è riuscita invece a coniugare sviluppo industriale avanzato e ritorno veloce alla realtà di una vita che, regolarmente, ci mette di fronte a difficoltà anche gravi ma che va sempre affrontata a viso aperto correndo anche qualche rischio. Verrebbe da dire che L’Emilia, in questi anni ha saputo cogliere il meglio della lezione milanese, lombarda e veneta, è cioè spirito imprenditoriale e di innovazione, mixandoli con le sue radici fortemente comunitarie, mentre il Veneto, Milano e la Lombardia hanno svelato i loro lati peggiori: mancanza di visione culturale e strategica, nel primo caso, retorica di una modernizzazione tecnologico – individualista, nel secondo.
I dati sull’export e sulla popolazione lanciano dunque l’Emilia come regione leader del “nuovo triangolo industriale” e condannano Milano, la Lombardia e il Veneto a un declino dal quale, se non cambieranno visione e strategia, faticheranno a riprendersi. E per farlo dovranno dotarsi di un disegno che richiede una più solida cultura industriale e una classe politica capace di elaborare e percorrere una solida prospettiva di crescita. Ce la faranno Sala, Zaia, Gori e Fontana a produrre questo salto di qualità?