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C’è una metafora che ritorna con insopportabile frequenza in queste settimane della pandemia: il cigno nero. Politici, economisti, commentatori: tutti a citare l’espressione resa famosa da da Nassim Nicholas Taleb. Ma davvero il Coronavirus è stato un evento improbabile, non previsto e non prevedibile? In realtà, sappiamo benissimo che il rischio di un virus di questo tipo, con queste caratteristiche e con questi effetti sistemici era stato evidenziato non solo dagli scienziati – e quindi nella ristretta cerchia degli specialisti – ma anche da opere di divulgazione come il libro “Spillover” di David Quammen o il Ted di Bill Gates. E allora perché si continua a parlare del SARS-Cov-2 come di un “cigno nero” e non come di un pericolo colpevolmente sottovalutato, in particolare dalle istituzioni nazionali e internazionali?
E’ un tentativo, pericoloso, di auto-assoluzione. Favorendo una narrazione che racconta la pandemia come una tragedia imprevedibile al pari di un terremoto, si cerca di nascondere le nostre responsabilità. Dove per “nostre” si intende di tutti noi. E’ sicuramente più semplice prendersela con il destino avverso, con la sfortuna o con la scaramanzia dell’anno bisestile. Ma la verità è che ce la siamo cercata. Innanzitutto, a quanto ci dicono gli esperti, questi virus zoonotici – ovvero che compiono salti di specie dagli animali agli uomini – sono provocati, nel vero senso della parola, dall’aggressione dell’uomo agli ecosistemi, il male vero dell’antropocene. Per intendersi: è come se una persona continuasse a prendere a sassate nidi di vespe, sperando di non essere mai punto. Quella persona è ciascuno di noi. Il nido sono i nostri ecosistemi. Le vespe sono i virus. La metafora è un po’ semplicistica, ma rende l’idea. Se prima o poi le vespe pungono chi lancia i sassi, non è sfortuna. E’ uno degli scenari attesi.
Ma l’utilizzo della metafora del “cigno nero” è fuorviante anche per un’altra ragione. La minaccia di una pandemia è stata inquadrata come poco probabile nelle mappe di risk management e tanto è bastato per non attribuirle la necessaria attenzione. Ma quel che è peggio è che, ancora, prendiamo per valide quelle mappe per giustificare l’impreparazione con la quale abbiamo affrontato questa crisi, prima sanitaria e poi economica e sociale. Non c’è nemmeno l’umiltà per ammettere che quelle mappe sono state disegnate con troppa superficialità, senza i necessari approfondimenti. Non c’è il coraggio di dire che c’è qualcosa di sbagliato nel mondo con il quale affrontiamo le questioni complesse: ad esempio, le diverse discipline non dialogano abbastanza. La scienza con l’economia, per dire. In un mondo complesso e interconnesso come il nostro, non possono esistere confini nemmeno nella conoscenza. E questa è un’altra lezione da apprendere dalla tragedia del Coronavirus.
Ma per imparare dai nostri sbagli è fondamentale evitare atteggiamenti auto-assolutori, come quelli che si nascondono dietro la metafora del “cigno nero”, che ancora sentiamo ripetere così spesso. Ammettere le nostre responsabilità è il primo passo da compiere per riprogettare il mondo dopo la pandemia e per iniziare ad affrontare con la giusta mentalità le enormi sfide che ci aspettano. La prima, e più urgente, è quella climatica. Se non agiremo in tempo e con misure adeguate, le conseguenze economiche e sociali saranno molto più profonde e gravi di quelle della pandemia. E non potremo nemmeno giustificarci evocando il cigno nero…
*direttore generale di Confindustria Belluno Dolomiti e curatore del libro “Il mondo che (ri)nasce. La nostra vita dopo la pandemia” (Rubbettino, 2020)