Nel tuo lavoro di manager hai frequentemente spiegato la necessità di una stretta relazione tra il mondo d’impresa e la cultura.
Nel caso della Marzotto c’è una tradizione che risale a parecchio tempo fa, quando tra il 1952 e il 1968 l’azienda organizzava uno dei premio di pittura più importanti del secondo Novecento. Tra i vincitori vi sono stati autori che sono diventati dei capisaldi come De Pisis, Fontana, Burri. È stata un’esperienza legata al mecenatismo e al desiderio di promuovere la Marzotto, ma questo ha a mio parere contribuito ad attivare un sistema culturale in una piccola città come Valdagno. Questa ricerca della bellezza era anche testimonianza di quel Made in Italy che andava a delinearsi industrialmente in quegli anni.
E adesso?
Penso che non possiamo più essere semplicemente dei custodi del passato, ma sia necessario immaginare una fase nuova, proprio grazie al rapporto con le arti. Se continuiamo a cullarci nella storia rischiamo che le nostre radici si rinsecchiscano, perché il corso d’acqua che ci ha tenuti in vita, anche solo nel secolo scorso, diventa ogni giorno più asciutto. Per le nostre aziende è necessario rifondare lavorando sulla contemporaneità per immaginare nuovi prodotti e nuovi servizi dotati di un intrinseco concetto di bellezza. Gli imprenditori, i manager e gli amministratori dovrebbero cambiare la loro modalità progettuale. Se infatti negli ultimi anni l’arte è diventata importante, ora penso sia diventata fondante, intimamente necessaria.
Ma pensi ci sia oggi una classe dirigente capace di cogliere questa sfida, di leggere il presente con la profondità di cui parli?
Non serve pensare in maniera pessimistica. I fatti ci stanno mettendo di fronte a questa urgenza. I grandi mutamenti, come per esempio quello innescato dal Covid-19, ci porteranno necessariamente a cambiare il nostro modello creativo. Se non iniziamo a farlo ora rischiamo di perderci, di non creare nel presente ulteriore senso, bellezza o contenuti significativi, anche dal punto di vista economico. Ugualmente anche le aziende sono chiamate a rispondere al cambiamento, non semplicemente reagendo, ma con la necessità di rivoluzionare i processi nel loro interno. Dovremmo abituarci al fatto di lavorare in forma non sempre fisica, ma la polverizzazione e la perdita delle relazioni sono un grande rischio. Per questo serve un cambio di passo.
In quale modo lo si può attuare?
È evidente che in genere la cultura sia un fondamentale aggregante valoriale, e questo vale anche per le imprese. Senza un senso di appartenenza non si può essere in grado di pensare a dei prodotti o a dei servizi realmente significativi. La storia ci insegna che le innovazioni nascono da un contesto determinato e non casuale. È necessario progettare un percorso che tenga unite le aziende, orgogliosamente, e che le renda capaci di essere immerse nel presente con nuove modalità, anche in qualche modo introspettive.
Con quali strumenti?
Ne immagino due in particolare. In primis il romanzo, che è per sua natura una forma espressiva che mette insieme accadimenti e narrazione, che agisce ugualmente anche in forma identitaria, aiutandoti a capire chi sei e come stai agendo. E ugualmente la pittura, forse in maniera ancora più forte la pittura astratta, che è in grado di stimolare una lettura complessiva e articolata della nostra condizione. Se penso per esempio ad alcune delle opere presenti nella mostra di Vulcano, ne avverto la sfida e sento che continuano a interrogarmi, invitandomi a cogliere relazioni possibili tra quell’immagine libera, indeterminata, e il nostro presente. Proprio quella sensazione, quell’emozione del tutto, e insieme di ciò che è possibile, è la dimensione fondamentale dell’azienda.