Talent acquisition, talent pool, talent development, talent management. La parola ‘talento’ negli ultimi anni è salita agli onori delle cronache di politiche aziendali, studi universitari sulle risorse umane, pratiche di management. Si cerca e si parla di talento ovunque, in maniera spasmodica. Rispetto al contesto in cui sono nati i primi modelli teorici il mondo in cui viviamo, tuttavia, è profondamente cambiato. Oggi è necessario mettere profondamente in discussione, a livello organizzativo, ma soprattutto di individuo, tale concetto e aprire un confronto su cosa sia e a cosa serva davvero. In questo il progetto Extra Ordinario fornisce degli spunti che non possiamo ignorare. Sia le opere esposte nella sede di Vulcano, realizzate da artisti neo diplomati all’Accademia di Belle Arti di Venezia, che il brulicante lavorio del workshop, sono una chiara dimostrazione di come il talento possa essere coltivato attraverso un agire collettivo e partecipato. L’arte ci dà sempre un forte stimolo a cambiare prospettiva e rivedere le logiche che stanno alla base del nostro vivere. Se vogliamo innescare una riflessione sul talento forse dovremmo prendere coraggio e ripartire proprio da qui, con quattro idee fuori dal coro.
Lavorare sul talento e non sulle aree di miglioramento
La leggenda vuole che il primo allenatore di Maradona, dopo averlo visto giocare, lo abbia obbligato a usare solo il suo piede sinistro, perché “il destro fa schifo, ma il suo sinistro ha qualcosa di magico”. Cosa sarebbe successo se quell’allenatore avesse lavorato sulla sua area di miglioramento invece che sul suo talento? Questo ci insegna che, a differenza di quanto tanto predicato dai paradigmi di management aziendale, non serve profondere smisurate energie per colmare le aree di miglioramento, ma è necessario concentrarsi sul proprio talento, perché un 6 non fa la differenza, né a scuola né nella vita, ma un 10 sì. È la strada che porta all’accettazione di se stessi, all’assenza di giudizio e alla liberazione dal continuo affanno di chi cerca di fare qualcosa in cui non riesce.
Tutti hanno talento
Credo che tutti abbiamo un talento, una cosa che sappiamo fare meglio delle altre e meglio degli altri. È ciò che Mihály Csíkszentmihályi definisce “flusso”, una condizione caratterizzata da un totale coinvolgimento dell’individuo: focalizzazione sull’obiettivo, motivazione intrinseca, positività e gratificazione nello svolgimento di un particolare compito. Nel flusso tutto sembra facile e scorre senza intoppi, i problemi non fanno paura, il nostro livello di energia è altissimo. Ma se tutti hanno talento, dov’è l’intoppo? Innanzitutto non tutti ne sono consapevoli. Passiamo molto, troppo tempo a rincorrere le aspettative e le proiezioni degli altri. La mancata consapevolezza limita l’espressione del talento e la ricerca di condizioni che ne consentano l’esplosione. Le organizzazioni inoltre pretendono performance in base al cliché del ruolo e spesso non riescono a leggere le potenzialità dei singoli, soprattutto se questi vengono messi a rincorrere le qualità imposte dal contesto o dai modelli dominanti.
Non servono i super-talenti
Spesso le organizzazioni affermano che ha talento è chi possiede la cosiddetta learning agility, ovvero la capacità di apprendere in contesti diversi e di fare bene anche in nuovi ruoli e situazioni. Ma davvero chi sa fare bene tutto, sempre e comunque, è anche un talento? Chi andrebbe da un oculista, che però è anche un ottimo cardiologo, ma anche un bravissimo ortopedico e un meraviglioso dentista? Si è arrivati fino all’aberrante definizione di ”talento assoluto”, ovvero la capacità di ricoprire qualsiasi ruolo in qualsiasi azienda. È una concezione di talento esasperata. Le organizzazioni avrebbero invece bisogno di persone vere, autentiche e uniche che, come tratteggiato da Frederic Laloux, vivano con pienezza il proprio ruolo, condividano lo scopo ultimo e più alto delle aziende per cui lavorano e abbiano lo spazio per organizzare con autonomia il proprio lavoro.
Talento è fragilità
Sono fermamente convinto che più grande è il talento più grande possa essere il vuoto, la mancanza, la debolezza, da qualche altra parte. Accettare che dietro a una grande capacità ci sia un grande deficit ci rende più umani, unici e capaci di lasciare il segno. In tal senso Susan Cain racconta un bell’esempio sulla timidezza. “Il mondo è pieno di introversi. […] Sono almeno un terzo delle persone che conosciamo: sono quelli che preferiscono ascoltare, invece che parlare; che preferiscono leggere invece cha fare vita sociale; quelli che creano e inventano, ma che non ostentano la loro opinione.” Per molte organizzazioni ambiziose e competitive sarebbero evoluzionisticamente morti, ma a molti di loro dobbiamo alcuni dei più grandi progressi dell’umanità. Susan ci insegna che il segreto è passare da una “timidezza riluttante” a una “timidezza orgogliosa” e che quindi il talento è anche, senza vergona, fragilità.
*HR Practice Leader, Gruppo Arsenalia