Una questione di numeri, si dirà. Laddove ci sono maggiori contagi i governatori prendono misure più severe, mentre dove il fenomeno è meno intenso si è più tranquilli. Una affermazione che non risponde a dati effettivi, ma a semplificazioni comunicative utile agli allarmisti per sostenere le tesi favorevoli al lockdown. Di giorno in giorno, infatti i dati trasmessi divergono, ma, nel complesso, non sembrano indicare grandi differenze per milione di abitante tra una regione e l’altra. Per capirci, negli ultimi sette giorni, inclusa la giornata di ieri che indica in Lombardia 51 decessi (un numero anomalo rispetto alle altre giornate), i decessi globali sono stati 153 per la Lombardia, 71 per il Veneto e 48 per l’Emilia Romagna. Numeri cioè pressoché pari tra le tre regioni per milione di abitanti. Il Covid insomma colpisce senza differenze, e, come vedremo e come confermano gli scienziati, provocando effetti molto minori rispetto all’ondata di marzo e aprile.
Insomma, i numeri non c’entrano nulla per spiegare i diversi atteggiamenti che i governatori regionali del Nord hanno sulla gestione di questa emergenza. Come mai, allora, di fronte a numeri praticamente identici, la Lombardia, e soprattutto Milano, sembrano essere nel panico mentre Zaia e Bonaccini ogni giorno trasmettono segnali preoccupati ma che escludono forme di lockdown che non siano chirurgiche? Perchè all’interno dello stesso governo le linee suggerite dai diversi ministri sono così divergenti e quando arrivano a proporre la chiusura dei ristoranti alle 18 trovano l’opposizione dei governatori del Veneto e dell’Emilia?
Il motivo di comportamenti così diversi è evidentemente dettato dal fatto che i governatori regionali non fanno altro che registrare gli umori delle proprie basi sociali, ascoltate sia direttamente che attraverso i sondaggi che indicano loro gli atteggiamenti da tenere e le indicazioni da dare. Basta guardarsi intorno e girare in queste aree per capire. A Milano, per esempio, vige ormai da un anno un clima di terrore e paura che ha contagiato gli abitanti e le classi dirigenti di quella città, capaci ormai di auto-rinchiudersi in casa in una sorta di auto – lokdown, senza dimostrare preoccupazione alcuna per la catastrofe economica che incombe sul capoluogo lombardo.
Percezioni diverse e opposte si respirano in Veneto ed Emilia, dove, pur registrando comportamenti responsabili, si respira un’aria assai più tranquilla sul fronte sanitario è assai più preoccupata sul fronte della tenuta economica. A Milano, tutti i grandi gruppi del settore finanziario e dei servizi, praticano sistematicamente da quasi un anno lo smart working, mentre nelle aree produttive del resto del Nord, essendo impossibile produrre nelle fabbriche in smart working, le persone sono abituate da tempo a recarsi al lavoro. Peraltro, come dimostrerebbero i numeri utilizzati dai propugnatori del lockdown, sembrerebbe che dove più si fa smart working più aumentano i contagi. Non è così perché questa volta, a differenza di quello che accadde lo scorso anno a Bergamo (non a Milano) – i numeri sono identici praticamente ovunque, ma questo dovrebbe bastare a spiegare che lo smart working è totalmente inutile, se non dannoso, per battere il Covid, e che le fabbriche sono invece luoghi dove la situazione viene monitorata costtantemente garantendo maggiore sicurezza individuale e collettiva.
E’ evidente allora che il Covid sta configurando, oltre alle due italie del Nord e del Sud, altre due Italie che potremmo definire, usando il linguaggio di Aldo Bonomi, quella delle città e quella delle campagne, indicando così quelle aree geografiche maggiormente concentrate sui servizi e quelle maggiormente legate alla produzione. Pare evidente che chi sta nel mondo dei servizi, più legato alla virtualità dei rapporti, subisce un contraccolpo psicologico assai più marcato di chi vive ed ha vissuto esperienze umane e professionali più “concrete” e meno condizionabili dalle mode mediatiche. Ma, oltre a questo elemento psicologico, ve ne è uno anche assai più concreto. Chi sa che la sua sussistenza è garantita, tende ad essere più favorevole al lockdown rispetto a chi sa che una chiusura forzata lo porterà questa volta alla povertà.
Esemplare in questo senso il caso del direttore de La Stampa, Massimo Giannini. Il direttore de La Stampa, per essersi fatto – come qualche altro migliaia di italiani – qualche giorno di terapia intensiva, ha usato le pagine del suo giornale per chiedere una chiusura generalizzata che porterebbe sul lastrico qualche milione di italiani. Un atteggiamento di protervia intellettuale che lo accomuna a quello di altri giornalisti iper garantiti come Lilli Gruber, che non perdono occasione ogni sera nei talk show per chiedere il lockdown generalizzato incuranti delle conseguenze che si abbatteranno sui cittadini meno garantiti e assai meno retribuiti di loro. E i “protetti” che operano nei media, così come nelle altre aree di servizi come banche, finanza, consulenza, formazione, a Milano sono la stragrande maggioranza.
Dove porterà questo scontro tra modelli e culture diverse? Dipende. Gli errori che Salvini ha commesso gestendo in maniera “negazionista” la prima fase del Covid fanno escludere che la frattura sociale e culturale si trasformi ora in frattura politica. Il negazionismo è infatti l’altra faccia, speculare, al lockdownismo, e rappresenta un modo irresponsabile di gestire quello che comunque è un problema di tutela della parte più fragile della comunità nazionale, che sono gli anziani over 80. Conte da parte sua sta gestendo al meglio la situazione cercando di tenere un difficile equilibrio tra le due parti in conflitto, ma molto dipenderà anche da quanto la sua maggioranza saprà contenere gli scontri interni, soprattutto nel Pd, tra i ministri lockdaownisti e sindaci e amministratori regionali come Gori e Bonaccini che stanno dalla parte dei “produttori”.
Di certo, però, se i fautori del lockdown e i media che alimentano il partito della paura dovessero prevalere, facendo crollare ancora una volta i consumi, lo scontro potrebbe questa volta trasformarsi in rivolta sociale, come è accaduto a Napoli l’altro ieri. E questa volta l’Europa non potrà salvarci di nuovo. Qualche olandese che alzerà il ditino per chiedere come mai in Francia, con più del doppio dei contagi (45.000), si sono prodotti solo lockdown notturni in aree delimitate del Paese (pari al 25%) mentre in Italia si è approfittato per chiudere di nuovo tutto e chiedere nuovi aiuti all’Europa, arriverà sicuramente. E portare allora al governo i fautori del modello veneto – emiliano, sarebbe forse troppo tardi.