Non serve essere dei geni per guardare ai fatti e trarne le conseguenze, metodo empirico con il quale hanno poca consuetudine sia i lockdownisti che i negazionisti. E i fatti dicono che siamo di nuovo in presenza di una ondata di contagi che potrebbe provocare ancora tante vittime quante il Covid ne aveva prodotte la primavera scorsa. Una situazione grave e drammatica per tutte le persone colpite e per i loro familiari, ma che sta colpendo in maniera pesantissima anche milioni di persone per le quali le misure di tutela della salute che vengono assunte rappresentano una condanna che pregiudica il loro futuro e la loro sopravvivenza.
E questa seconda ondata è diversa dalla prima. Nella primavera scorsa, infatti, alcuni governi europei scelsero la strada dei lockdown, chi limitati, come Germania e Francia, chi ideologici e totalmente sproporzionati, come l’Italia. Altri, invece, come gli inglesi, gli americani, gli svedesi e i brasiliani, scelsero strade assai diverse, peraltro molto criticate dai lockdownisti. I fatti oggi ci dicono che i risultati ottenuti sia dai primi che dai secondi sono nei fatti uguali in termine di numeri di vittime per milione di abitanti. Che mascherine e lockdown servano come cura psicologica o effettiva lo giudichino i lettori sulla base dei numeri reali.
In ogni caso, in tutti questi Paesi, l’effetto socio economico che si è venuto a creare è stato quello di una forte divaricazione tra “garantiti” e “non garantiti”. Chi vive di stipendi pubblici e pensioni, insomma, ne è uscito avvantaggiato e ancora più ricco (tanto che i depositi bancari tra queste categorie sono aumentati a dismisura) mentre chi opera nel privato, specialmente in determinati settori, e i giovani, ne sono usciti fortemente penalizzati.
Gli effetti del primo lockdown sono stati calmierati da due fattori. Il ricorso al risparmio accumulato negli anni precedenti dalle famiglie e da una serie massiccia di contributi pubblici. La somma di questi due elementi ha fatto sì che, superati i primi due mesi, i motori sociali ed economici, pian piano, si riaccendessero, limitando i danni ed evitando il conflitto sociale. Il ricorso ad una ulteriore dose massiccia di debito pubblico, destinata ad esploderci tra le mani nel prossimo futuro, non è stata percepita come un pericolo immediato, anche se stiamo facendo correre le giovani generazioni verso un burrone, ma nel frattempo abbiamo riparato le buche nella strada che li porterà verso quel destino. L’egoismo degli anziani, orientati solo a tutelare il loro benessere, unito alla totale incapacità dei giovani di sviluppare un pensiero autonomo conflittuale, sta portando questi ultimi a condannarsi a un futuro davvero difficile.
Come abbiamo accennato poco sopra, la novità è che questa seconda ondata cambia nuovamente le carte in tavola. Lo ha scritto bene l’altro giorno Massimo Cacciari in un editoriale sulla Stampa che su questo numero di Monitor riprendiamo. Chi ha già sofferto pesantemente nel corso della prima ondata, ora è allo stremo. Ma non solo. Se si imbocca la via della chiusura, questa volta non durerà solo un mese ma è destinata a prolungarsi fino a primavera. E se sarà così chi riuscirà e con quali denari a mantenere in vita una decina di milioni di italiani colpiti direttamente e indirettamente dal nuovo lockdown?
Una strada teorica ci sarebbe, e cioè suddividere i sacrifici tra le diverse categorie, andando a colpire due fonti di “rendita” in maniera da poter tenere più sotto controllo il debito pubblico e poter compensare il divario sociale che si sta creando. La ricetta prevede di ridurre stipendi pubblici e pensioni del 20-25%, cioè almeno la metà di quanto shanno perso e stanno perdendo i non garantiti, e inserire una patrimoniale pesante del 10%. Ma è una strada, allo stato attuale, totalmente impraticabile, è solo un “gabinetto di guerra” potrebbe farlo. Ma alla guerra non siamo più abituati e ogni governo ragiona solo sulla base della sua possibilità di sopravvivere. Già ora il consenso di intere categorie sta per essere consegnato all’opposizione, e se il governo dovesse alienarsi anche i consensi dei “garantiti” cadrebbe automaticamente. Sarà giocoforza, dunque, per questo come per qualsiasi altro governo, cercare di barcamenarsi tra garantiti e non garantiti cercando di scontentare il meno possibile i secondi anche facendo leva sulla paura diffusa che ancora per un po’ può fungere da strumento di consenso.
Ma la paura funziona solo fino a quando non mette in discussione i livelli di sopravvivenza di intere categorie. Quando queste vedono minacciato il loro futuro economico e lavorativo tendono inevitabilmente a sfidarla. Come spiegava bene su Repubblica qualche settimana fa Sebastiano Messina, al ristoratore di Firenze che obiettava che tra il rischio di morire di Covid e la certezza di morire di fame sceglieva la prima strada, è difficile dire che deve chiudere la sua attività. Il giorno dopo sarà in piazza e non gli importerà nulla dei discorsi moralistici di Lilli Gruber e di decine di altri opinionisti da salotto che affollano i vari talk show.
La scelta lockdownista porterà dunque inevitabilmente a far scoppiare un conflitto economico e sociale di proporzioni che rischiano di essere disastrose. E la scelta politica di cosa sacrificare in un periodo di guerra, tra centinaia di vite umane e il concreto rischio di disordini, tumulti, fame e povertà, non sarà facile. Chi si illudeva che “andrà tutto bene”, chi pensava che “il lockdown è come stare in vacanza ad agosto”, chi non capisce che il Paese e l’Europa intera rischiano di cadere nel baratro, farebbe bene a guardare in faccia la disperazione che comincia a serpeggiare nelle nostre piazze e ad alimentare la rivolta capeggiata dall’estrema destra neofascista. Non siamo ancora a Weimar, ma quattro mesi di lockdown potrebbero portarci in quella direzione. E allora il Covid diventerà l’ultimo dei nostri problemi.