Negli ultimi 10 anni era stata il simbolo della rinascita del Paese. Spinta da una tendenza che sembrava inarrestabile a livello globale che vedeva dirigersi i processi di sviluppo verso i grandi aggregati urbani, forte di un successo come l’Expo che aveva determinato una crescita esponenziale della sua attrattività, forte di una finanza e di un mondo di servizi che concentrava nella capitale lombarda, risorse e intelligenze, Milano sembrava destinata a diventare non solo la capitale naturale dell’intero bacino padano, ma di tutto il Paese.
Il Covid, in poche settimane, ha cambiato tutto. E la seconda ondata ha mutato questo scenario, probabilmente, per almeno i prossimi 10 anni. La rapidissima spirale positiva, al girare del vento, si è tramutata in una altrettanto rapida spirale negativa. E, per capire cosa sta accadendo, bisogna guardare agli stessi due fattori che ne avevano determinato il successo: la psicologia e i soldi.
Avete presente l’effetto di un ristorante pieno accanto ad uno vuoto? Di una discoteca nella quale si fa la fila per entrare e di una desolatamente vuota? Istintivamente, senza nemmeno rifletterci, chiunque tende a scegliere di entrare nel locale più affollato. A Milano era accaduto questo. Tutti andavano Milano perché a Milano c’erano tutti. I valori immobiliari erano lievitati in modo impressionante, chiunque volesse aprire una attività di peso doveva essere a Milano. I prezzi di bar, ristoranti e ogni genere anche di prima necessità prevedeva un supplemento “Milano”. La stessa cosa in questi anni era accaduta a Londra, New York e in tutte le altre metropoli. E più ci si concentrava, più i valori crescevano e più Milano si arricchiva.
Così accadeva fino a ieri. Poi, il Covid, ha cambiato tutto, prima nella psicologia e poi negli effetti reali. Ricordate la prima ondata? Il Covid colpiva pesantemente nelle valli bergamasche e nel lodigiano, fuori dai circuiti metropolitani, eppure, Milano, che non aveva percentuali di casi così rilevanti, si è sentita subito assediata. E ad assediarla non sono stati i provvedimenti, ma la paura e l’idea che il contagio passi più per la prossimità fisica più in una metropoli che in un paesino di montagna, dove tutti si conoscono e per questo si frequentano più assiduamente. Una paura totalmente irrazionale, considerato anche il fatto che le metropoli sono per loro natura “giovani” e che, come spiega bene il prof. Remuzzi, le categorie davvero a rischio sono gli over 70.
Così Milano si è rivelata fragile nelle sue fondamenta quasi fosse un castello di sabbia. La tanto decantata classe dirigente capace di costruire il successo di quella città, dal sindaco Sala al governatore lombardo Fontana, è apparsa incapace di comprendere ciò che stava avvenendo e di darsi una strategia coerente, balbettando continuamente frasi sconnesse e prive di una logica coerente. Le grandi multinazionali dei servizi, schiave ormai delle mode politically correct delle elité culturali americane e delle ideologie sulle magnifiche e progressive sorti della tecnologia capace di far vivere gli umani in una virtualità permanente da second life, hanno adottato l’ideologia dello smart working, fenomeno che ha ridotto la città a un fantasma, luogo inabitabile e desolatamente vuoto.
Nei prossimi mesi si farà la conta dei danni. Già con la prima ondata, scrive il Sole 24 Ore, i prezzi degli affitti commerciali sono crollati del 25% ed è facile prevedere ora, con questo secondo lockdown, una moria di esercizi commerciali tale da comprimere ulteriormente i prezzi. Ma, soprattutto, chi sceglierà più di andare a vivere in una città deserta, fragile, impaurita, senza più negozi e vita sociale? E chi sarà invece capace di diventare nuovo centro di attrazione e sviluppo? I borghi, come sostiene l’architetto Boeriche da buon milanese non ama le mezze misure, o le città e le aree più dinamiche come quelle del Veneto o l’Emilia, dove, non a caso, Zaia e Bonaccini hanno resistito alle sirene delle elitè lockdowniste e da tempo ormai coltivano una strategia opposta a quella milanese e lombarda?