“Il futuro è il mare, non sono i porti. Questi sono e saranno sempre più la cerniera tra presente e futuro, tra la ricchezza che scorrerà in profondità e le terre emerse. Sott’acqua scorrono e scorreranno i cavi attraverso i quali passeranno le informazioni, l’acqua ci legherà sempre più all’idrogeno, alla possibilità di realizzare parchi eolici o fotovoltaici e a miglia di altre opportunità che emergeranno nei prossimi vent’anni. Stare sull’acqua solo in Italia è una disgrazia. In tutto il mondo è una opportunità. Ma bisogna avere chiaro quale è lo spazio competitivo che si vuole andare ad occupare”.
A proposito di acqua, è un fiume in piena Zeno D’Agostino, il presidente dell’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Orientale, che avevamo sentito per ragionare con lui del Next Generation Ue e che, partendo da li, sposta rapidamente l’asse del ragionamento. “Si, ci abbiamo lavorato – ci dice – e il risultato è quello che è stato premiato il nostro lavoro di progettazione. Ma il Next Generation non è tutto. Il vero problema nostro e di tutto il Paese è che bisogna tornare a progettare il futuro”.
Presidente D’Agostino, di solito quando si parla di porti si contano i Teu e gli altri indicatori quantitativi di traffico. È su questo che i porti italiani combattono a suon di comunicati stampa per affermare i loro successi. Non è più questo il metro di misura?
“Guardi, la cosa che le posso dire è che se stiamo qui a contare i container non andiamo da nessuna parte. Se ci mettiamo a fare lo stesso mestiere di altri, magari più grandi e strutturati, abbiamo perso in partenza. E’ un po’ come quando la manifattura italiana voleva competere con i cinesi sui costi. Ne stava uscendo massacrata. Poi ha capito che bisognava far leva su elementi competitivi inimitabili da altri. E così, dalla meccanica al tessile, dal mobile alla farmaceutica, si è scoperto che potevamo competere sulla qualità. Ed è li che è rinata ed è riuscita a vincere. Sui porti è la stessa cosa. Dobbiamo capire quali sono i punti di forza competitivi delle nostre città che stanno sull’acqua.”
Proviamo a tradurre?
“Si. Per prima cosa dobbiamo smettere di pensare che il porto sia solo il porto. Oggi conta di più il contesto complessivo. Cioè la parte che oggi vediamo come esterna, cioè l’acqua, e quello che sta alle spalle del porto. Il porto, insomma, deve diventare un elemento di cerniera. E nell’acqua oggi, e sempre più tra vent’anni, quando nei fatti vivremo sott’acqua a causa dei cambiamenti climatici, ci staranno un sacco di opportunità: data center, comunicazione, energia. E su queste cose che devi costruire una tua visione, figlia di un pensiero e di una progettazione originale. Ma la visione devi averla, altrimenti diventi succube di quella di altri. Il Pireo, non è stato ceduto solo per soldi ai cinesi, ma anche perché era privo di una visione propria. E così quel porto oggi ha assunto il progetto cinese come proprio.
Ma allora il problema non è neanche il pescaggio, sul quale si dibattono per esempio i porti di Venezia e Ravenna?
Il pescaggio non è più di per sé un problema, perché ormai le merci le puoi muovere su chiatte capaci di spostare le merci a prescindere dall’arrivo in banchina. Il problema è che quando la merce viene sbarcata deve potersi muovere sui treni. Se non sai quando il treno parte, è inutile far arrivare li la merce. Per questo sostengo che il lavoro deve essere sviluppato guardando da una parte al mare e dall’altra all’interno. È li che dobbiamo tutti concentrarci e lavorare per creare valore. A partire dai lavoratori che impieghiamo, che vanno stabilizzati e qualificati, smettendo di ricorrere a cooperative per competere sul costo del lavoro. I nostri servizi devono esprimere qualità e per farlo abbiamo bisogno di lavoratori stabili, qualificati e preparati.
Con tutto il rispetto, presidente, lei sta parlando lo stesso linguaggio dei nostri migliori imprenditori privati. Dubito che nel pubblico si possa ragionare in questi termini. E infatti lei viene considerato una sorta di mosca bianca…
Questa è un altro degli alibi che a noi italiani piacciono tanto. Ma non è così. Il tema per quello che riguarda la pubblica amministrazione non è questo. È che la politica deve imparare a mettere persone qualificate a dirigere, per esempio, le partecipate. In tutti quei casi, e se ne possono citare molti, nei quali sono stati messi manager qualificati a dirigere aziende pubbliche o a partecipazione pubblica, i risultati sono arrivati. I risultati non arrivano quando i presidenti o gli amministratori delegati vengono scelti con logiche politiche tra personalità che hanno frequentato più i palazzi del potere che svolto percorsi manageriali. E, soprattutto in questa fase, nella quale il ruolo del pubblico sta diventando centrale per reggere il post crisi, o si sceglieranno manager capaci o questo Paese non sarà in grado di reggere