L’ascesa della Liga Veneta è coincisa, quanto meno sotto il profilo temporale, con l’evidenziarsi dell’insostenibilità del regime di gestione della spesa pubblica che aveva caratterizzato gli ultimi anni della prima Repubblica. Necessità finanziarie sempre maggiori avevano portato ad un progressivo inasprimento della pressione fiscale, al quale non era seguito un corrispondente miglioramento della qualità e della quantità delle prestazioni pubbliche. In realtà, le sempre maggiori spese derivavano da una spesa sociale ed assistenziale omnivora alimentata dalla necessità di conservare il consenso ai partiti di governo e di soddisfare – fin dai tempi della Solidarietà nazionale – chi al governo non partecipava ma aveva pur sempre titolo per barattare la propria collaborazione con qualche ben mirato provvedimento.
Si è cambiato il sistema elettorale pensando di eliminare così quel sistema clientelare, collegato al voto di preferenza, che tanta parte pareva avere nell’alimentare la necessità di nuove spese. Una repressione giudiziaria che non ha avuto, per virulenza e dimensioni, paragone in nessun regime democratico avrebbe dovuto sradicare la corruzione anch’essa percepita quale causa importante del progressivo dissesto delle finanze pubbliche. La Liga fu invece l’espressione, nel Veneto, di un’altra soluzione al problema: tutto si sarebbe risolto se non si fossero mandati più soldi a Roma, città madre, non solo di clientelismo e di corruzione, ma anche di un’attività sistematica di distrazione delle risorse del Nord laborioso verso il Sud parassita. Roma Ladrona, appunto.
Si è visto, poi, che la modifica del sistema elettorale e la dissoluzione di un’intera classe politica non sono state neppure utili per ridurre la spesa pubblica. Dal momento che la Lega è entrata in questo governo ed ha espresso il ministro per le riforme era lecito però pensare che si sarebbe almeno tentato di rivoluzionare i rapporti finanziari tra centro e periferia posto che fino ad oggi le riforme di taglio federalista hanno portato ben poco di buono, sul piano finanziario, alla causa delle autonomie. Infatti, l’effettivamente accresciuta capacità impositiva di regioni, province e comuni ha significato, per lo più, nuovi tributi da aggiungere a quelli nazionali. Spesso poi a questi enti sono state, sempre in nome del federalismo, trasferite competenze senza prevedere una corrispondente assegnazione di nuove risorse con cui far fronte agli oneri che da quelle competenze sarebbero derivati, con l’effetto di impoverire le autonomie a favore del potere centrale.
In un sistema che è sempre più condizionato dalla legislazione comunitaria e nei quale l’esperienza passata ha dimostrato quanto difficile sia prescindere da un coordinamento nazionale anche nelle materie che da sempre sono appannaggio delle autonomie, quella finanziaria era l’unica vera rivoluzione, se non possibile, che, almeno per coerenza, la Lega avrebbe dovuto tentare. Apprendiamo, invece, che del federalismo fiscale si parlerà nella prossima legislatura il che, nel linguaggio della politica, equivale a dire che l’argomento è chiuso. Si sa, il tempo mitiga gli ardori e la consuetudine con l’attività di governo rende consapevoli che, a volte, è necessario accettare qualche compromesso ma se il risultato delia rivoluzione leghista sono competenze senza denari può ben dirsi, ancora una volta: molto rumore per nulla.