La risposta al fenomeno delle grandi dimissioni? Passa (anche) attraverso la “manutenzione predittiva delle relazioni” per non farsi trovare sorpresi delle dimissioni. Riprendendo un codice mutuato dall’ambito operation, Fabio Pierobon, psicologo delle organizzazioni di Niuko Innovation & Knowledge, ha sintetizzato con questa metafora i tanti stimoli emersi nel corso dell’evento online “Employer branding: dal recruiting all’offboarding al tempo delle grandi dimissioni”, promosso da Niuko e dall’area Lavoro Previdenza Education di Confindustria Vicenza nell’ambito del format Maps for Future.
Un appuntamento introdotto da Marina Pezzoli, ad di Niuko e da Alberto Favero, vicepresidente di Confindustria Vicenza con delega alle Relazioni industriali, che ha messo a confronto le voci di Rosanna Del Noce, hr advisor e socia di People 3.0, Andrea Montuschi, Employer Experience strategist di Qualtrics e Umberto Frigelli, coordinatore del centro ricerche di AIDP, consulente di direzione aziendale e docente a contratto dell’Università Cattolica.
Negli Stati Uniti 24 milioni di americani hanno lasciato il loro lavoro fra aprile e settembre 2021: un “esodo” senza precedenti registrato, seppur con proporzioni nettamente inferiori, anche nel nostro Paese. Se i dati restituiscono le dimensioni del fenomeno, la risposta al “perché?” di questo trend non sembra né facile, né univoca, né scontata. Come ha spiegato Del Noce, una ricerca del MIT Media Lab ha provato a indagare le ragioni alla base della scelta delle dimissioni volontarie negli States: “Le cause sono molteplici, ma ciò che colpisce è che una cultura aziendale tossica incide dieci volte di più di fattori come la gratificazione economica o del livello tecnologico ovvero la mancanza di una vera comunicazione in azienda (anche quando magari c’è una buona informazione), l’assenza di una reale sinergia, il mancato coinvolgimento dei collaboratori nelle decisioni e nelle scelte con le persone che dovranno partecipare ai progetti”.
Che fare? Non esistono risposte preconfezionate, ma alcune chiavi preziose si possono rintracciare nel modello employer journey sviluppato dal Del Noce che segue l’esperienza del dipendente in tutte le sue fasi (a partire dalla candidatura per il posto del lavoro) proprio come avviene nel caso della customer journey con il cliente: solo attraverso una cura costante e strutturata della relazione (spesso invece affidata rilevazioni episodiche) è possibile una buona gestione dell’exit, passaggio in genere sottovalutato e invece cruciale perché il dipendente una volta lasciata l’azienda l’ex dipendente continua a restare un ambassador veicolandone l’immagine in chiave positiva o negativa.
“L’intervista in uscita – ha spiegato Del Noce – restituirà informazioni utili solo se c’è un dialogo già aperto fra l’area risorsa umane e il dipendente”. Per fare in modo che l’esperienza di exit sia più positiva, ha aggiunto la consulente, si potrebbe inoltre coinvolgere gli altri collaboratori dell’azienda in una restituzione, anche attraverso video dedicati da condividere sui social, su ciò che la persona in uscita ha lasciato. La scelta di affiancare all’hr manager il responsabile della figura dimissionaria per un colloquio approfondito e strutturato, ha suggerito poi Del Noce, può essere molto utile anche al responsabile stesso che in questo modo può ricevere un feedback prezioso rispetto alla sua capacità di gestire il team e alle sue competenze di leadership.
Significativa anche la ricerca realizzata da Qualtrics in 27 paesi del mondo secondo il cui il driver dell’engagement (e dell’intenzione di restare nello stesso posto di lavoro) che risulta più in crescita è la convinzione che gli obiettivi di carriera possano essere raggiunti in azienda: alla fedeltà si sostituisce la scelta di un contesto che possa – per un periodo di tempo limitato – soddisfare il proprio progetto di crescita. Ecco che diventa fondamentale affrontare queste nuove sfide a con strategie che tengano in considerazione il target generazionale: “Gli under 35 – ha spiegato Montuschi – cresciuti immersi nei social media in un universo fatto di like, vengono motivati se ricevono feedback molto frequenti”.
Risposte messe in campo da molte aziende all’insorgere della pandemia, ovvero gli interventi di coach o psicologi, o ancora la strutturazione di momenti come la pausa caffè a distanza per riempire ogni intercapedine del calendario, risultano oggi inadeguate. “Con le agende perennemente compresse – ha aggiunto – spesso i dipendenti vivono una condizione di oppressione che è alla base della demotivazione. Oggi è il tempo di lavorare sulla sottrazione, ad esempio scegliendo di alleggerire il carico di call piuttosto che inserire un’attività aggiuntiva con lo psicologo…”. Come Del Noce, anche Montuschi ha insistito sulla necessità di tenere insieme tutte le fasi del ciclo di vita del dipendente, connettendo i diversi momenti anche attraverso i dati forniti dalle piattaforme digitali dedicate.
In chiusura Umberto Frigelli ha presentato i dati della ricerca AIDP che ha coinvolto 600 hr manager nel nostro Paese evidenziando come le dimissioni volontarie abbiano coinvolto principalmente la fascia tra i 26 e i 35 anni (a differenza degli Usa dove il fenomeno è più marcato nella fascia 35-45). I dimissionari lavorano principalmente nelle aree produzione, IT e marketing. Pur trovandosi nella “morsa fra un altro numero di persone che se ne vanno e la difficoltà di trovare nuove risorse di assumere – ha aggiunto Frigelli – solo un 20% delle aziende ha già messo in atto strategie per rispondere al fenomeno, mentre 6 hr su 10 si dicono convinti che questo trend, pure dettato dalla ripresa del mercato, sia legato anche un cambiamento del senso che le persone attribuiscono al lavoro intervenuto con la pandemia”.