La crisi del salvinismo sta deprimendo la Lega, la cui ascesa (culminata alle europee con lo storico 34%) e caduta (che si registrerà alle politiche) sembra ricalcata su quella del Pd di Matteo Renzi. Se la Lega non partirà da un’analisi del parallelismo tra questi due leader non solo faticherà a capire cosa è successo, ma le soluzioni che andrà a cercare rischieranno anche di portarla fuori strada. E di farla tornare ad essere quello che era all’epoca di Berlusconi, cioè a un partito minoritario nel Paese, e, per quanto importante, marginale anche in Veneto e Lombardia.
Renzi e Salvini vinsero negli anni scorsi sulla base di due grandi messaggi populisti: la rottamazione il primo, la lotta all’immigrazione il secondo. Il populismo, si sa, rende sempre elettoralmente, ma dura fino al giorno in cui non arriva un altro populista pronto a individuare nuovi temi che lo lancino come nuovo salvatore della patria, salvo scaricarlo all’arrivo del successivo, che si chiami Grillo come in passato o Meloni come oggi. Il populismo produce quindi meteore, mentre a dar forza ai partiti è il radicamento sociale e culturale che sanno costruire rispondendo a bisogni – non effimeri – di parti rilevanti dell’economia e della società.
La relativa forza del Pd, e, nel Nord, della Lega, consiste infatti nell’essere riusciti a mantenere in molti territori uno zoccolo duro grazie alla capacità di rappresentare blocchi sociali omogenei, a cui questi due partiti offrono una prospettiva in parte alternativa e in parte convergente. Il Pd parla infatti alle “intellighenzie” urbane, al terziario avanzato e al pubblico impiego; la Lega, al Nord, alle partite iva e a strati popolari e contadini ostili a ogni forma di assistenzialismo.
La forza di Enrico Letta in questi mesi è stata quella di non aprire mai bocca e di aderire alle politiche di Mario Draghi, rassicurando la sua parte di elettorato, trovando candidati coerenti con quella linea, vincendo così nelle città del Nord grazie alla sua “forza tranquilla“, pur senza riuscire a sfondare. Ma anche, questo va detto, grazie agli errori dei suoi avversari.
La Lega invece, vittima di un leader alla ricerca ossessiva di visibilità mediatica, negli ultimi anni si è spasmodicamente agitata rendendosi inintelligibile al suo elettorato moderato. Chi è riuscito a capire se Salvini sta con Draghi o no? Se sta con gli ucraini o con i russi? Se sta con i suoi governatori leghisti o contro di loro? Gli elettori non lo hanno capito e, in più, secondo il vecchio adagio, appena hanno subodorato che ormai sono capitanati da un perdente, non pochi sono saliti sul carro della nuova cavalla vincente.
La prima reazione di leghisti storici, pragmatici e intelligenti, come lo è certamente Roberto Marcato, è stata quella di urlare che il Re è nudo, e che bisogna ripartire dai fondamentali. Atteggiamento sano e corretto, che però non può diventare un semplice ritorno al passato. Se la Lega vuole tornare a svolgere un ruolo egemone al Nord, queste richieste vanno – a nostro modesto avviso – sostanziate alla luce dei cambiamenti che ci sono stati in questi anni.
Per esempio, parlando delle imprese di oggi, è ora di chiudere con la retorica del “piccolo è bello”, per costruire una nuova narrazione del “piccoli si nasce, per diventare però grandi” (che non vuol dire “giganti”, cosa che non è nel dna del nostro tessuto industriale). Se la Lega non lo facesse, lascerebbe orfane di rappresentanza migliaia di imprese che vogliono crescere e che non trovano rappresentanza né nel Pd né altrove, almeno in Veneto e Lombardia. Per inciso, circoscriviamo a queste due regioni la mancata rappresentanza di questi interessi, perché invece in Emilia Romagna Stefano Bonaccini questi mondi li rappresenta benissimo. Ma, per fortuna dei leghisti, il suo partito non sembra concedergli lo spazio sufficiente per insidiare le altre regioni della pianura padana.
Così sul tema dell’Autonomia, battaglia (anche questa populista) ingaggiata da Luca Zaia anni fa, bisogna prendere atto che per come è stata impostata è risultata disastrosa. Anni passati a invocare una sorta di Terra Promessa, senza mai ottenere un risultato concreto. Eppure il tema dell’autonomia (o meglio del federalismo originario teorizzato da Miglio) evidenzia esigenze assolutamente condivisibili che meriterebbero risposte politicamente più avvedute di quelle offerte fino ad oggi dal governatore del Veneto. La questione del Nord, o meglio del nuovo triangolo industriale, esiste e va affrontata. Ma richiede una nuova lettura sistemica che parta dalla necessità di una maggiore integrazione tra le regioni che compongono il nuovo triangolo industriale. Anche qui, se la Lega vuole rappresentare il Nord, dovrebbe farsi promotrice della costruzione di un asse tra le regioni più produttive e implementare politiche che rispondano agli interessi dei suoi elettori. Ma su questo Zaia non solo non sembra sentirci, ma addirittura blocca qualsiasi operazione che possa andare in questa direzione, convinto che una nuova campagna per l’Autonomia possa ancora rendere politicamente. I risultati assai deludenti da lui ottenuti con il referendum ed elettoralmente in tanti comuni importanti come Conegliano e Verona, indicano che forse, al pari di Salvini, anche per lui è iniziata la china discendente e che i nuovi leghisti farebbero bene ad aggiornare l’agenda anche su temi a lui così cari come l’autonomia.