C’era un tempo in cui si diceva che saremmo stati migliori. Che quando la tempesta perfetta sarebbe passata, ci saremmo riscoperti più uniti, più umili, più umani. Nulla di tutto questo è accaduto. Siamo più stanchi, più frustrati, più irascibili. Al Covid-19 è seguita la guerra in Ucraina e alle tensioni geopolitiche il rincaro energetico. La misura è colma. Per questo, aspiriamo a nuovi modelli: dalla Yolo – si vive una volta sola – alla Hygge – il modello nordeuropeo che combina lavoro, individuo e comunità. Modelli accomunati da un’unica consapevolezza: prima che lavoratrici e lavoratori, siamo persone.
«Quando parliamo di Grandi Dimissioni non dobbiamo fare l’errore di considerarle come la fotografia di un attimo. Sono piuttosto la rappresentazione di un malessere che è iniziato ben prima della pandemia e che proseguirà anche nei prossimi mesi» spiega la dottoressa Federica Sandi, psicologa e psicoterapeuta, consigliera segretario dell’Ordine degli psicologi del Veneto.
Chi vuol scendere dalla locomotiva d’Italia?
Proprio il Veneto è stato una delle regioni più colpite dall’abbandono massiccio e volontario del lavoro. Se in Italia complessivamente si sono registrate oltre 1,6 milioni di dimissioni nei primi nove mesi del 2022 (il 22% in più dello stesso periodo del 2021, dati ministero del Lavoro), in Veneto sono oltre 200 mila le lettere di dimissioni piombate sulle scrivanie delle Risorse Umane (quasi 30mila in più del 2021, 75mila in più rispetto al 2020, dati Agenzia Regionale Veneto Lavoro).
«Il Nord Est è sempre stato uno dei territori più produttivi di Italia – continua Sandi –: più si lavorava e più si era considerati bravi e intelligenti. Ora, invece, il modello che si persegue non è più quello fordista, legato all’orario, ma quello nord europeo. Ricerchiamo la Hygge, ovvero un benessere più meditativo e meno competitivo che tradotto nel lavoro significa: fare meno, ma meglio. Privilegiare la qualità piuttosto che la quantità di lavoro. Per le imprese, specie per le PMI familiari, è difficile adeguarsi a questa nuova organizzazione».
Il tema, infatti, è proprio che l’organizzazione è una parte, ma non il tutto. Nelle dispute su quale forma di smart working adottare nel post pandemia (3+2/2+3 o simili), sfugge un nodo, che invece è centrale: non possiamo cambiare i workflow se prima non cambiamo la cultura aziendale. Se questa è ancorata a modelli novecenteschi, in cui il valore di un/a dipendente è misurato in base al quantitativo di ore trascorse alla scrivania, inserire una giornata di lavoro a distanza (telelavoro più che smart working) non sarà certo la soluzione. Né per l’azienda né per il suo capitale umano, in particolare se parliamo delle generazioni più giovani che chiedono a gran voce di avere una vita piena sì, ma non di lavoro.
Il vento che soffia dal Nord Europa
E il modello Hygge nordeuropeo va esattamente in questa direzione. Basti guardare alle sperimentazioni sulla settimana corta: l’Islanda ha ridotto le ore lavorative da 40 a 35, a parità di stipendio, già dal 2015 e non solo la produttività è aumentata, ma è migliorato notevolmente l’equilibrio tra lavoro e vita privata. In Svezia, invece, si lavora 6 ore al giorno, in Norvegia, i dipendenti, specialmente se neogenitori, hanno diritto a un taglio dell’orario, in Danimarca si sta sperimentando un modello di lavoro da 33 ore settimanali, e potremmo continuare così.
«I giovani sono rimasti scottati dalla pandemia: si sono ritrovati in qualcosa di più grande di loro ed essendo alle prime esperienze, non hanno avuto gli strumenti per gestire la nuova condizione lavorativa. Non solo, hanno ridefinito valori e prospettive: lo stipendio, seppur importante, non è più l’unico driver che guida le loro scelte. Più importante è poter disporre del loro tempo» prosegue ancora Sandi.
La solitudine della Z Gen
Dunque, secondo la psicologa, il malessere ha oggi più che mai un tratto generazionale. Sono i più giovani ad aver subito di più, ad aver aggiunto complessità a quel precariato di cui già erano vittime. I senior, invece, hanno vissuto una pressione diversa, legata alle mansioni da svolgere o alla gestione familiare, ricaduta in gran parte sulle donne. Tutto questo ha avuto un impatto. Ha portato a sviluppare competenze nuove (digitali, anzitutto) e a ricercare una qualche forma di empatia anche attraverso gli schermi, ma ha anche generato nuove solitudini. Solitudini che sono diventate l’origine di abbandoni formali o silenziosi dal lavoro, come nel caso del quiet quitting, e che possono essere risolte solo in un modo: prevenendole.
Le aziende aprono agli psicologi
«Dobbiamo imparare a riconoscere i segnali d’allarme, a valutare i cambiamenti con distacco, a dare la possibilità a tutti di parlare e confrontarsi. La prevenzione è la chiave per gestire le nuove esigenze del capitale umano» chiarisce la psicoterapeuta. Diverse aziende, infatti, hanno inserito sportelli di ascolto e percorsi di terapia per il personale. Un’attenzione che sta portando anche alla nascita di nuove realtà imprenditoriali (pensiamo al successo di Unobravo e di Serenis, entrambi portali per la terapia online).
«La professione dello psicologo è stata molto sdoganata, non è più un tabù richiedere una consulenza. E il lavoro, nei percorsi di terapia, acquista una valenza sempre maggiore. Per questo – conclude Sandi – ciò che dico alle imprese è: non mettete in discussione solo l’organizzazione del lavoro, ma ridefinite il modo in cui vi relazionate alle persone, riscoprite un dialogo con loro, prevedete percorsi di prevenzione, costruite nuovi ponti».
È questo, del resto, l’unico modo per provare a trattenere le risorse. Risorse che sono, in definitiva, l’elemento differenziante di ogni business.
Foto di copertina: Copenhagen, di Febiyan su Unsplash
*L’articolo è tratto dal sito di GoodJob.vision