Quest’anno Ravello Lab e Federculture con istituzioni e imprese hanno discusso delle frontiere mobili tra cultura e flusso dell’Intelligenza Artificiale. Punta dell’iceberg di grandi questioni che interrogano una moltitudine calcolata in Italia con più di 800mila addetti, che deborda se guardiamo ai tanti stagisti “dell”Impara l’arte e mettila da parte”. Nell’ipermodernità ci provano raccontando una composizione sociale che ha il problema non solo della relazione tra potenza dell’algoritmo e creatività umana, ma del rapporto tra senso del proprio fare professione culturale e reddito, della capacità di reggere su mercati dell’industria culturale sempre più concentrati. A Ravello un mondo delle professioni culturali interrogante ha provato ad autodefinirsi come ponte e mediatore collettivo tra la potenza astratta dell’IA e una coscienza dei luoghi nei territori sempre più inquieta. Saperi e contenuti di vite e relazioni sociali quotidiane che tramutabili in dati, sono il valore diffuso ricercato che alimenta la potenza calcolante dei padroni dell’algoritmo. Sottostante alla questione dell’intelligenza artificiale è la capacità delle società di porsi come comunità di destino in grado di tenere sotto controllo il rapporto delicato tra antropocene e tecnocene. Come incamminarsi con i piedi per terra nella crisi ecologica con un intelletto collettivo sociale governante il tecnocene? Che interroga lo spazio dei lavori della cultura, sulla capacità di essere non solo tessuto di utilizzo professionale della potenza calcolante, ma “decodificatori buoni” degli interessi dei luoghi dove i soggetti vivono, comunicano, fruiscono dei contenuti mettendosi in mezzo e bilanciando l’impatto del flusso tecnologico. Riguarda, in altre parole, lo statuto di composizione sociale generativa delle economie della cultura non solo sul piano dell’economia, ma anche su quello del tornare a parlare di società producendo cultura utile a ripensare le forme di una coesione sociale che rappresenta il fattore che sta cedendo. Il tema di identità e statuto del lavoro culturale viene prima o quantomeno è contemporaneo a quello della frontiera tecnologica. Perché il rischio è una debolezza di fondo nel rapporto con i big players dei flussi e dell’algoritmo, non solo da parte della composizione diffusa ma anche delle istituzioni culturali, dalle università ai musei. Occorre rafforzarsi non solo nella capacità di relazionarsi con la verticalità della frontiera tecnologica, ma nella capacità di essere parte di un tessuto di economie della prossimità sostanziate di reti locali solide nel raccontare e raccontarsi. Qual è, mi chiedo, la funzione di un museo e dei suoi operatori nel rapporto con la coscienza di luogo di un territorio? Di esserne soggetti, nel costituirsi come autonomia funzionale, istituzione di comunità che forniscono a cittadini e lavoratori culturali esterni alle mura dell’istituzione, strumenti e spazi di espressione per creare valori in grado di evitare il cozzo tra la dimensione della tecnokultur, e della realtà aumentata con il racconto e i sussurri delle metamorfosi della civilizzazione. La produzione della coesione sociale o la memoria delle virtù civiche e del capitale sociale rimanda ad una tessitura di identità di relazione e reti sociali. Per questo oltre che di intelligenza artificiale a Ravello si è discusso di alleanze con fondazioni, imprese, “terzo settore” e cooperative, musei, università o imprese culturali professionali su progetti di coscienza di luogo che rimettano in moto e rigenerino capitale sociale. Da qui l’interrogarsi su quali competenze necessarie nella turbolenza che attraversano quelli che lavorano comunicando. Scavando nella memoria genetica del Paese è stato evocato l’umanesimo industriale dell’ingegnere Adriano Olivetti che inoltrandosi nel tecnocene di allora, lo coniugava e raccomandava in un sincretico fare da operatori di comunità. Ed allora, se penso al futuro operatore, quadro o dirigente culturale, forse lo vedo un po’ tecnologo, intellettuale ma anche molto operatore sociale e territoriale, costruttore di istituzioni culturali che abbiano questa missione e coscienza di sé complessa che ci aspetta. Usando un linguaggio da umanesimo industriale nei lavori di Ravello ci si è interrogati sul come rendere l’IA una rete postfordista e non struttura ordinatoria verticale e fordista. Mi pare il tema di fondo: un mix di conflitto, competenze e alleanze orizzontali potrebbe essere una strada per quelli che stanno in mezzo nel lavoro culturale con i satelliti di Musk sulla testa e sotto la crisi fiscale degli enti locali da cui molto dipendono musei, eventi e laboratori culturali sul territorio.