Si va per territori ed inciampi in macro-temi caldi dal regionalismo al rallentamento tedesco al di là delle Alpi, sino a scenari di guerra a segnare solchi e faglie dopo la relativamente lunga stagione della globalizzazione “piatta”. Ti viene di alzare lo sguardo per cogliere tendenze nei rapporti problematici tra integrazione e sovranismi, tra identità e relazioni, tra geoeconomia e geopolitica. Mi son ritrovato a seguire il dibattito in corso in Svizzera, tondino di ferro della macroregione alpina, chiamata a ridefinire il proprio spazio di rappresentazione in Europa e nel mondo tra “apertura e ripiegamento”. È questo il sottotitolo del volume dello storico impegnato André Holenstein recente ospite nella Sala del Gran Consiglio di Bellinzona, dove ha presentato l’edizione in lingua italiana de La Svizzera nel cuore dell’Europa – Una storia tra apertura e ripiegamento (Giampiero Casagrande editore). «La Svizzera è il paese più europeo del continente», scriveva Holenstein, membro onorario dell’Accademia Svizzera di Scienze umane e sociali qualche tempo fa («Limes» 12/2023), costituendo quel peculiare esito storico scaturito dall’intreccio tra le vicende locali impregnate di coscienza di luogo, di istituzionalizzazione dal basso delle comunità locali poi confluito nel disegno confederale, e le grandi trasformazioni degli equilibri di forza nel pendolo della storia tra guerre mondiali e integrazione tra le potenze europee. Utile ed interrogante è la sottolineatura di come la genesi e la forza dell’identità svizzera non stia tanto (o solo) nei miti fondanti del suo costituirsi come “soggetto”, ma nel suo essere esito delle “relazioni” economiche, sociali, politiche con le aree culturali circostanti. Metafora utile da assumere anche per un’Europa incalzata dagli eventi: ripiegarsi sulla dimensione degli Stati nazione o costituirsi come disegno continentale federato e pluralista oltre il suo essere semplicemente un grande mercato unico? La Svizzera, l’Europa, è (sono) oggi più faglia o più soglia? Come scrive l’economista territoriale Remigio Ratti animatore e sodale dell’Associazione Coscienza svizzera, nel recensire il libro («L’Osservatore» 11/2024) la Svizzera è “territorialità” non potendo essere certo annoverata tra gli Stati nazione, ovvero è una costruzione sociale fondata sull’integrazione dell’eterogeneità culturale, sulla cura della coesione sociale e sul posizionamento funzionali nelle reti europee. È quella che io chiamo geocomunità, intendendo con ciò l’esercizio del potere politico agito attraverso una regolazione dei flussi organizzata intorno al capitalismo delle reti: finanza, energia, nodi e infrastrutture per la mobilità, saperi formali (ricerca e sviluppo), reti di subfornitura, che funge da elemento di integrazione dei territori in funzione della sua proiezione trans-nazionale. Pensiamo a quella piattaforma tra città, territori, laghi e montagne che va da Milano a Zurigo o da Venezia a Monaco sull’asse Nord-Sud, favorendo l’integrazione geoeconomica tra le aree perialpine a trazione industriale della Pianura Padana e del Baden-Württemberg e la Baviera. Non solo le economie interrogano l’Europa come “confederazione” tra diversi (Cacciari). Nel suo libro Holenstein sottolinea come il processo di integrazione federale non sia stato un percorso pacifico, unanime, di aggregazione tra pari bensì, l’esito di una dialettica tra la spinta alla creazione di un mercato unico, tipico delle grandi città a guida liberale dell’epoca, e le istanze delle campagne e delle valli di mantenere un controllo ossimorico feudal-democratico delle periferie sul centro. L’integrazione federale in altre parole è stata consustanziale al suo essere in relazione con la dimensione europea, in opposizione e dunque non grazie, alle forze sovraniste dell’epoca. Ma non è solo questione di geoeconomia ma di geopolitica. Tema non da microcosmo ma anche questo da ripensare in tempi di guerre asimmetriche, di guerre a pezzi, e di spinte interne all’isolazionismo alimentate anche in Svizzera dal difficile governo dei flussi di immigrati (2 milioni su 9 milioni di abitanti). La neutralità vale soprattutto in tempo di guerra, quale è il nostro, mentre in tempo di pace passa facilmente per opportunismo. Neutralità non vuole dire solo stare fuori, ma anche saper stare in mezzo come elemento terzo capace di mediare, mettendo in gioco gli interessi della pace. Insomma, direi che Europa ed Elvezia, hanno ancora molte cose da dirsi se continua ad essere vero che l’identità sta nella relazione e insieme stare in relazione con un mondo in cui le faglie aumentano e si approfondiscono.