Pensa che la reazione dei musei e delle istituzioni culturali alla pandemia sia stata pronta ed efficace? Come migliorare?
Indubbiamente c’è stata una forte reattività e una rapida implementazione di dispositivi e di iniziative. Per dispositivi intendo quelli che hanno favorito la comunicazione a distanza e la relazione a distanza, ad esempio le radio web, i tutorial. Dal punto di vista delle iniziative, c’è stata una forte attenzione alla conoscenza e all’informazione sul patrimonio, a specifiche attività di mediazione e di didattica, cioè a ciò che si può fare a casa senza venire negli spazi ormai diffusi e laboratoriali del museo. Nel settore che conosco meglio, quello dei musei di arte contemporanea, c’è stata una diffusa e rapida accettazione della condizione data, di attivazione di nuove pratiche o di rafforzamento di pratiche già esistenti.
Rispetto ai margini di miglioramento, io credo sia importante riconoscere quegli artisti che non usano il digitale come codice per veicolare immagini, ma che lavorano proprio sulla dinamica, sulla conoscenza, sulla capacità di elaborare strategie di interpretazione dello strumento e non di applicazioni dello stesso. L’arte non è interessante se è una mera arte applicata rispetto alla predeterminazione delle sue forme implicite nel mezzo adottato.
Quali realtà hanno affrontato meglio questo cambio di direzione inaspettato e obbligato?
Credo che, rispetto alle possibilità date dal digitale, ci siano delle esperienze straordinarie, quali per esempio il MoMA di New York: l’archivio delle mostre del MoMA è un’iniziativa, non soltanto importante rispetto alla quantità di informazioni che si ottengono, ma dal punto di vista storiografico ci dice qualcosa di importante, cioè che l’arte contemporanea è anche una storia di mostre, non soltanto di opere. Fare una storia dell’arte non significa soltanto elencare gli oggetti-prodotti artistici ma anche fare una storia dei momenti e dei modi in cui l’arte si dà. In questo senso il MoMA è un modello interessantissimo.
Come direttore di musei e istituzioni culturali, secondo lei quali sono le prospettive future della culturale online?
Non che i musei fossero così arretrati: AMACI lo scorso anno ha organizzato un convegno riguardo alla svolta post-digitale nei musei. Questo a testimonianza del fatto che c’è una sensibilità diffusa rispetto a questo tema nei musei di arte contemporanea.
Ciò che vedo però è un eccesso di ottimismo su questi strumenti, che rischiano di far perdere di vista le domande più radicali che questa situazione oggi pone. Si è pensato di trasferire sul dispositivo digitale il più possibile, compresi in alcuni casi le mostre.
Il rischio però è di pensare all’arte come ad un contenuto, come a qualcosa che possa essere tradotto e quindi all’idea del dispositivo come un semplice apparato di veicolazione di un contenuto dato, e questo è un cattivo servizio. Perché l’arte non è questo: l’arte non è un significato che si può ripetere attraverso un nuovo linguaggio, quello del digitale in questo caso: l’arte ha un’eccedenza rispetto al significato, l’arte è imprevedibile. L’opera d’arte talvolta è addirittura uscita dal perimetro della cornice e credo che sarebbe davvero un cattivo servizio quello di farla rientrare in un altro perimetro che è quello dei visori.
Ciò che l’arte è non può essere ridotto a transizione verso altri media e se questa cosa può sembrare un’ovvietà devo subito ricordare fenomeni come le mostre che promettono l’incontro con gli artisti o con la loro poetica: ma non è la stessa cosa incontrare l’opera di Van Gogh o immergersi nel dispositivo delle “Van Gogh Experiences”. C’è una dignità, ovviamente, anche in queste forme sperimentali, ma consegnarsi all’autentico dell’esperienza artistica molto spesso è proprio elaborazione, interpretazione, decostruzione dei paradigmi stessi dei linguaggi.
Le opere d’arte che hanno davvero decostruito i linguaggi oggi non possono trovarsi banalizzate nell’articolazione dei linguaggi di codice del digitale.
Il Mart si è sempre distinto con contenuti e iniziative digitali. Ha visto un cambiamento da parte dei visitatori in queste settimane di lockdown?
Sì, soprattutto per quello che riguarda le attività per le famiglie, della didattica, che hanno riscontrato molto interesse, evidentemente anche perché c’è più tempo per stare a casa.
Ma, attenzione, non diamo per scontato che questa cultura digitale sia democratica ed accessibile a tutti. È certamente sempre più diffusa ma non riguarda tutti. C’è anche un problema di competenze, di alfabetizzazione rispetto al digitale.
Per quanto riguarda il Mart si sta parlando di un target di riferimento abbastanza ampio ma al tempo stesso specialistico.
I musei, probabilmente, saranno i primi che potranno riaprire perché possono garantire le norme di sicurezza…
Forse. Stiamo scoprendo le cose in tempo reale: potrebbero esserci dei problemi enormi all’interno dei musei che andranno verificati: una cosa molto concreta è che i musei devono garantire delle condizioni ottimali di conservazione: temperatura e umidità costante. I requisiti che stanno emergendo a proposito della sicurezza dei visitatori impongono di avere nelle sale aria non ricondizionata, per avere ambienti sanificati e igienizzati, ideali per le persone, ma che rischiano di mettere in crisi la tutela delle opere d’arte. Forse si è azzardata con un po’ troppa disinvoltura la riapertura del 18 maggio.
A parte le difficoltà, i costi e anche la domanda “per chi aprono i musei?”, questo sarebbe il vero paradosso: ambienti ideali per le persone che non possono essere tali per le opere. Non siamo sicuri che siano compatibili le due esigenze.
Con la partecipazione del pubblico secondo lei cambierà l’idea di collettività e del sentirsi parte di un’esperienza?
Lo è già. Non riesco a immaginare la realtà com’era prima.
Io penso che tutti noi guardiamo già oggi con modificata sensibilità quel che era naturale fino a pochi mesi fa. Mi è capitato di vedere scene di film, dove ho pensato “Ma come? Si toccano?”. Ovviamente già oggi abbiamo una sorta di sguardo retrospettivo: l’idea di corpo è modificata, quella del contatto, di una relazione. Tutto ciò non potrà non influire sulle arti, anche nell’attesa più ottimistica di vaccini che ci possano far considerare la situazione attuale come quella già vissuta in altre epoche della storia e non con il pessimismo estremo di dire che nulla sarà più come prima.
Sì, io penso che siamo di fronte a un cambio di paradigma.
C’è qualche artista da tener d’occhio durante questi giorni di lockdown?
Non farò nomi e cognomi, ma gli artisti più interessanti sono quelli che sapranno porre domande più profonde sui dispositivi, sul modo di vivere, sulle esperienze che compiamo oggi, non quelli che automaticamente applicheranno le tecnologie già oggi fungibili, già oggi a disposizione. Gli artisti non devono essere funzionali a quello che già conosciamo.
*studentessa IULM che sta lavorando al progetto Pandemic Resistance Museums (PRM)