Tra le prime in Veneto e anche Italia a ricercare ed ottenere la certificazione B Corp è stata una piccola azienda di Valdagno del settore dell’arredamento. Maurizio Zordan, che con i fratelli guida l’azienda che porta il cognome di famiglia, all’epoca poteva sembrare ad alcuni un eclettico visionario. E, invece era uno dei precursori in Italia di un movimento che aveva già messo radici negli Usa e nel Sud America e si stava all’epoca affacciando in Europa. Tanto che, dopo di lui, sono arrivati in molti, circa un centinaio, tra cui nomi altisonanti come Chiesi Farmaceutica, la più grande B Corp in Europa, Aboca, Alessi o F.lli Carli (quelli dell’olio).
A influenzare Chiesi verso questa scelta, dati i rapporti di amicizia che lo legano alla famiglia della nota casa farmaceutica, è stato probabilmente un altro imprenditore visionario, Davide Bollati, a capo di Davines, che guida una industria cosmetica di eccellenza di Parma e che ha fatto della sostenibilità integrale il suo credo, tanto da allestire una sede, disegnata da Matteo Thun, che sembra tradurre alla perfezione una idea di sostenibilità non solo ambientale, ma anche sociale. Ma non solo. Daviness trasferisce questa logica anche ai saloni che utilizzano i suoi prodotti, contaminando quindi la sua intera rete di relazioni. E, come Chiesi, Daviness concilia perfettamente l’altissima redditività con la missione sociale dell’azienda. Si, perché la caratteristica di molte B Corp e proprio quella di avere una redditività a doppia cifra che si unisce percorsi di sostenibilità integrale.
Le B Corp ormai non si contano più sulle dita delle mani, perché, tra nuovi ingressi come quello della Cantina Cielo e Terra e probabili nuovi arrivi, come la montebellunese Scarpa o, in Puglia, il produttore di innovation food Andriani, che hanno da poco avviato il lungo percorso per arrivare alla certificazione, se ne contano quasi un centinaio in Italia.
Certo, all’inizio si trattava di piccole aziende visionarie come Zordan: per esempio la pasticcera Filippi di Thiene e un produttore di vini biologici di eccellenza come Perlage, ma poi, un po’ alla volta, sono cominciati ad arrivare i “medio – grandi”, quelli che hanno compreso che la competizione sui mercati si gioca non sullo sfruttamento aggressivo delle risorse ma sulla costruzione di un contesto nel quale tutti i soggetti ricavano i benefici del loro lavoro e, ad ognuno, inclusa la comunità, viene riconosciuto il suo valore.
E se oggi, di fronte a questa crisi provocata dal Covid, qualcuno si chiede se il tema della sostenibilità è ancora centrale, la risposta che i consumatori globali sembrano dare è pressoché univoca: non solo i prodotti che acquisto devono essere sostenibili, ma l’intero processo e percorso che l’azienda fa deve rispondere positivamente all’esigenza di creare valore per l’intero ambito sociale.
Che il capitalismo, con buona pace di Marx ed Engels che ne studiarono il meccanismo nella fase più dura della sua nascita, evolvesse in questa direzione era davvero difficile prevederlo. Così come le B Corp mettono in crisi il concetto di “terzo settore” e di “cooperazione”, sinonimi ormai o di intervento pubblico o parapubblico (le Fondazioni), o, nel caso della cooperazione, di forme spesso elusive degli aspetti contributivi se non vero e proprio strumento di sfruttamento dei lavoratori più deboli.
Se dobbiamo rintracciarne le origini di questo movimento, perlomeno per quel che riguarda l’Italia, dovremo forse rifarci a Rossi, Marzotto, Olivetti o a imprenditori di stampo cattolico liberale che hanno sempre compreso una cosa fondamentale difficile da capire in questo Paese: che il profitto di una impresa va perseguito come elemento determinante, ma che questo dipende anche dal contesto comunitario che essa contribuisce a creare ed alimentare. Certificazione americana, dunque, ma dal dna molto italiano.