In molti Paesi europei le attività commerciali hanno ripreso a lavorare o stanno già lavorando, mentre in Italia dovranno aspettare almeno fino al 18 maggio. Lei come interpreta la scelta del governo di riaprire le fabbriche ma di tener chiusi i negozi? Secondo lei ha senso questa distinzione?
No, è una cosa che non capisco: non c’è nessun elemento che renda a priori una fabbrica più sicura di un negozio. È chiaro che ci saranno degli standard di sicurezza che dovranno essere rispettati da tutti, ma la mia impressione è che questa decisione rifletta l’idea che le fabbriche siano più importanti dei negozi – ed è un tema che a mio avviso si ritrova spesso nel dibattito italiano -, quando invece il valore viene creato dall’intera filiera, che parte dalla materia prima e arriva al consumatore finale. Non ha senso dire “a monte si crea valore, a valle possiamo lasciare chiuso”. Trovo un po’ anacronistica questa visione. È chiaro che bisognerà rispettare le normative: io non sono tra chi dice “riapriamo tutto a ogni costo”, saranno i virologi e gli esperti che ci diranno come si potrà riaprire. Dico solo che quando si decide di ripartire sarebbe logico fissare delle regole di sicurezza.
Quindi, per la riapertura, secondo lei bisognerebbe utilizzare dei criteri uguali per tutti, piuttosto che distinguere le attività per codici Ateco?
Sì, certo. Per non diffondere il virus, ci verrà detto quali sono i protocolli da seguire. A questo punto, se io rispetto le regole, che sia dentro una fabbrica o dentro un negozio, non c’è differenza. Il governo ha detto che ci sono alcune attività che sono essenziali e possono aprire e altre attività che non sono essenziali e non possono aprire, facendo una valutazione di giudizio un po’ paternalistica che non mi ha trovato d’accordo. Perché? Facciamo un esempio: le librerie si possono riaprire perché sono considerate essenziali, ma il negozio di scarpe no. E questo chi lo dice? Nell’economia di oggi stabilire cosa è essenziale e cosa no è molto difficile, perché per una persona ordinarsi una birra può essere essenziale, ordinarsi le scarpe no, per un altro acquistare le scarpe può essere importante ma un libro no, per dire… Ovviamente mangiare e coprirsi sono bisogni essenziali, ma poi ci sono tanti altri bisogni sui quali fare una distinzione non è facile. Non dev’essere il governo a decidere cosa è bene che faccia il consumatore, l’unica cosa che dev’essere garantita a tutti è la sicurezza. Se il negozio è troppo piccolo non può riaprire, ma questo vale anche per una fabbrica essenziale, se non è in grado di garantire la sicurezza. Quello che non mi trova d’accordo è che alcune attività sono state riaperte a priori. Una provocazione: mettiamo che un ristorante decida di tenere un solo tavolino all’aperto e di far portare il cibo a un cameriere con guanti e mascherina. Perché questo non può riaprire, mentre il rider può consegnarmi il cibo del ristorante a casa? Cosa cambia? È chiaro che in queste condizioni il ristorante non riaprirebbe, perché i clienti sarebbero troppo pochi, ma dev’essere una scelta sua, non dev’essere imposto a priori. Questo ragionamento si presta ad attività di lobby: ogni categoria di attività con un certo codice Ateco andrà dal governo con il suo rappresentante per chiedere di riaprire. Invece la distinzione non dev’essere quella, dev’essere solo legata alla sicurezza, qualsiasi sia l’attività.
Molti negozi ora stanno pensando di fare affidamento ai saldi dopo la ripartenza. Lei pensa che questa possa essere una soluzione?
Questo è un problema molto grosso, è chiaro che c’è un eccesso di merce invenduta e quindi i negozi dovranno “spingerla fuori”. Premesso che sono contrario alle normative che regolano i saldi in Italia, nel senso che secondo me la variabile del prezzo deve essere gestita dall’operatore del commercio in funzione dei suoi obiettivi e del suo target di riferimento, quasi sicuramente, visto che la stagione è ormai andata, si ricorrerà alle svendite. È vero anche che ogni negozio avrà interesse a mantenere un certo posizionamento, perché se si abituano i consumatori ad acquistare la merce a prezzi bassissimi, il negozio perderà il suo posizionamento iniziale.
Secondo lei quali saranno le tendenze future per quanto riguarda gli acquisti?
Difficile dirlo, perché dobbiamo vedere l’evoluzione della situazione sanitaria. Sicuramente verrà utilizzato molto di più l’e-commerce, chi lo ha sperimentato in questo periodo non tornerà indietro. E probabilmente i negozi opereranno una selezione più attenta degli assortimenti, che immagino saranno più leggeri, sia perché avranno meno cassa a disposizione, sia anche perché questi luoghi, almeno in un primo momento, non saranno più posti dove si va, si tocca, si guarda… esporre tanti prodotti perché il consumatore scelga non avrà tanto senso, perché questo andrà lì avendo già più o meno idea di cosa vuole acquistare.
Quindi secondo lei il futuro che ci aspetta come consumatori sarà diverso da quello che conosciamo?
McKinsey, che sta tenendo d’occhio l’evoluzione dei consumi, ha ipotizzato nove scenari diversi, a seconda del contenimento del virus, quindi possiamo dire che è molto difficile immaginare adesso cosa accadrà. In linea di massima, il consumatore, nel momento in cui si trova in una situazione di sofferenza e di privazione, imparerà a dare più attenzione agli aspetti di sostanza. Questa è una tendenza che viene da lontano, non è un trend nuovo, ma verrà accelerato: fenomeni come questo rendono il consumatore ancora più consapevole. Poi penso anche che ci saranno delle opportunità legate al ritorno del localismo nei processi di consumo, e sarà interessante vedere come si svilupperanno. Ci si abituerà a considerare come primo riferimento le botteghe intorno a noi, che fanno arrivare il prodotto a casa, quindi il mercato sarà meno legato al consumatore globale, e sarà invece più riferito alle comunità.