Ce la faremo! E’ questo i leit motiv che ripetiamo tutti in questi in giorni. E nei momenti di difficoltà bisogna farsi coraggio e guardare al futuro con ottimismo. Da questo imperativo non si sfugge. La vita è soprattutto coraggio di affrontare le avversità e non cedere mai.
Ma se ce la faremo, soprattutto se e come, dipende innanzitutto da noi, da quanto stiamo prendendo sul serio coscienza che si sta combattendo non una, ma tre guerre. E le guerre, purtroppo, non si combattono in pantofole dal salotto di casa, ma al fronte (i medici e gli infermieri), dentro le fabbriche per produrre merci e servizi indispensabili (imprenditori e lavoratori), e preparandosi tutti a fare enormi sacrifici economici per destinare risorse sufficienti affinché la guerra possa essere vinta. Poi va bene anche andare a cantare sui balconi (il morale delle truppe e della popolazione deve rimanere alto), ma scambiare una guerra con un ferragosto anticipato è una delle scemenze più grandi che si siano scritte e sentite. Soprattutto quando le guerre da combattere non sono una ma tre.
La prima è legata all’emergenza sanitaria dove conta sia la capacità di attuare le misure di prevenzione, ma anche di attrezzare strutture ospedaliere che consentano di non lasciare nulla di intentato per nessuno, giovani o vecchi che siano. Nonostante una settimana di paralisi del Paese, l’emergenza sanitaria continua. E’ questo un sintomo che il virus viaggia più veloce di quanto si sia pensato di poterlo contenere con le misure adottate. Del resto tutti parlano ormai esplicitamente che gli infettati sono almeno il 50% della popolazione, cioè uno su due. Angela Merkel parla dell’ipotesi che ne resti infettata il 70% della popolazione tedesca, cioè due su tre. Poi, per evitare forme di autolesionismo e vittimismo tipiche del nostro Paese, bisognerà, come sostiene Ilaria Capua, anche perché ci sono queste differenze abissali nel conto delle vittime, che fanno si che, incredibilmente, l’Italia ne abbia tra il doppio e il quadruplo rispetto a tutti gli altri paesi del globo in proporzione agli abitanti e che stiamo ormai sorpassando il numero di vittime della Cina (si veda https://www.worldometers.info/coronavirus/ ).
Ma quella sanitaria è solo la prima delle guerre che l’Italia deve combattere. La seconda riguarda la tenuta dei conti del Paese. Inutile nascondersi il fatto che l’aver scialacquato i nostri soldi per quote 100, redditi di cittadinanza, Alitalia e quant’altro, ci ha resi fragilissimi nel poter utilizzare ora gli strumenti di finanza pubblica necessari. La pseudo gaffe della Lagarde che ha nei fatti scatenato la corsa dello spread, non è altro che la presa d’atto dei Paesi del Nord che, se qualcuno in questa guerra deve essere sacrificato, questo non può essere che il Paese più fragile. Cioè l’Italia. Per salvarci, dunque, dovremo far ricorso a risorse prevalentemente nostre. Tagli di stipendi pubblici, pensioni e patrimoniale, che lo vogliamo o no, sono strumenti indispensabili per reperire risorse per vincere la guerra e far sopravvivere il Paese. Per combattere e sostenere imprese e occupazione serviranno munizioni finanziarie ben più abbondanti che i 25 miliardi messi sul piatto dal Governo in questi giorni per le prime settimane di emergenza. E se vogliamo continuare a pagare stipendi pubblici e pensioni, e contemporaneamente non trovarci milioni di disoccupati nel settore privato e migliaia di aziende fallite, di quanto dovremo tagliare quegli stipendi e quelle pensioni? Il 10? Il 20? Il 30%?
La terza guerra, quella più difficile da capire per un popolo come quello italiano che vive di manifattura pensando di vivere di turismo, ma più chiara agli occhi dei leader francesi e tedeschi che citano la sopravvivenza del loro sistema industriale come prioritario, è la guerra appunto per tenere vivo il nostro sistema industriale, l’unico fattore che potrà garantirci di poter sfamare i nostri connazionali a guerra terminata. Del resto, anche sotto i bombardamenti così come nel Friuli o nell’Emilia del post terremoto, prima ancora delle case si correva a ricostruire le fabbriche. Abbandonarle, lasciarsi andare a scioperi che le paralizzino, incoraggiare le persone a non recarsi al lavoro, è stato uno degli errori più gravi che si potessero commettere. Non discutiamo il fatto che bisogna avere tutte le misure di sicurezza possibili, ma, di questo passo, nei prossimi giorni non rischiamo solo di far fallire aziende perché non producono più, ma persino di far saltare la filiera alimentare. E se saltasse la fornitura di cibo allora si dovremmo tornare a mandare le persone a produrre, costi quel che costi, per evitare panico e caos.
Scenari drammatici? Può essere ed anzi ci auguriamo di sbagliare clamorosamente. Ma per poter dire “Ce la faremo” bisogna anche prepararsi a costruire le condizioni per cui “ce la faremo”. Altrimenti saranno parole vuote simili a quelle usate a suo tempo in Grecia da Tsipras quando pensava che mai si sarebbe arrivati alla resa dei conti, mentre, tutto ad un tratto, gli ospedali si sono trovati privi perfino dei farmaci. E questo, con una emergenza sanitaria di questo tipo, noi non ce lo possiamo permettere.