Già solo la quantità di temi che si possono sollevare, oggi, relativamente alla situazione geopolitica dà l’idea di quanto sia importante rivolgere la nostra attenzione a questo fronte per coglierne gli impatti sulla nostra economia. Non che in passato fosse poco rilevante, anzi, eppure gli ultimi tre anni hanno segnato davvero un cambiamento nella gestione delle catene del valore, e oggi le attività delle nostre imprese, così come la stabilità dei nostri modelli economici, dipende più che in passato da alcune variabili geopolitiche. L’andamento della Cina, ad esempio. Ancor più la guerra fra Russia e Ucraina e quella che imperversa in Medio Oriente. Ma anche le prossime elezioni europee o quelle negli Stati Uniti. Abbiamo fatto il punto con Danilo Taino, inviato speciale e columnist del Corriere della Sera esperto del tema, autore anche di libri come “Scacco all’Europa” e “La guerra promessa”, editi da Solferino.
Taino, partiamo da una premessa. A seguito degli ultimi 3 anni di turbolenze, dal Covid in poi, possiamo effettivamente dire che le imprese abbiano riorganizzato le loro catene del valore? Insomma, il reshoring (o nearshoring, o ancora friendshoring) c’è stato davvero?
C’è stato, sì. La tendenza al reshoring a dire la verità è iniziata già prima del Covid, a seguito di decisioni politiche come quelle degli Stati Uniti, che da qualche anno ponderano gli effetti della globalizzazione, che inevitabilmente, non sono sempre soltanto positivi. Col Covid poi, e con il crescere delle tensioni geopolitiche, il fenomeno è andato aumentando. Da un lato per ragioni economiche: i costi della produzione sono aumentati anche in Cina, banalmente, e nel frattempo Xi Jinping ha messo in atto una stretta sulle imprese private e su quelle estere. Questo ha fatto sì che alcune di queste uscissero dal paese, e ancor di più ha causato un calo degli investimenti dall’estero, lo si vede nei dati del 2023. Ci sono effettivamente spostamenti di investimenti che escono dalla Cina e si rivolgono ad altri paesi. Eppure la situazione non è sempre così semplice: ad esempio, gli Stati Uniti hanno smesso di importare dalla Cina tutta una serie di componenti per le auto, comprandole dal Messico. Peccato che quelle che acquistano dal vicino Messico siano comunque prodotte in Cina, e facciamo semplicemente un passaggio in più pagando così dazi ridotti. Ad ogni modo, al di là di casi particolari come questo, possiamo dire che c’è stato sicuramente un accorciamento delle catene di fornitura e un ridimensionamento della globalizzazione.
In questo contesto, come accennava, si inserisce anche quella tendenza che ha sottolineato in altre occasioni di “dirigismo” da parte degli Stati Uniti, ad esempio, che sembra riproporre sempre più spesso interventi massicci nella gestione dell’economia.
Sì, è accaduto in primis negli Stati Uniti, pensiamo a quante centinaia di miliardi l’amministrazione Biden ha messo in campo per sostenere alcuni settori che ritiene strategici (come l’automotive o le energie verdi). Scelte di questo tipo derivano dalla presa di coscienza su due fattori in campo economico: primo, dell’arrivo di un’ondata di auto elettriche dalla Cina, finanziate in buona parte dallo Stato cinese e quindi con regole di concorrenza non conformi a quanto stabilito dalla World trade organisation (con evidenti problemi per i produttori occidentali). Secondariamente, la stessa dinamica la si può riscontrare nel settore dei pannelli solari e delle componenti per la transizione energetica. Così dopo l’intervento degli Stati Uniti sull’economia, anche l’Europa ora si sta muovendo, anche in vista delle elezioni. In tutti i programmi c’è un rimando a questo tema, e in particolare il Partito popolare europeo lancia un vero e proprio allarme sulla perdita di competitività dell’Europa. Non dimentichiamo che la Cina, oltre ad esportare prodotti finiti, ha anche il controllo di gran parte delle terre rare, che sono poi raffinate lì, dunque si trova in mano uno strumento di ricatto non da poco.
Ma come mettiamo assieme la forza della Cina su questo fronte con le difficoltà che attribuivamo al Paese poco fa? Che somma danno i due fattori?
Per alcuni versi possono annullarsi, ma secondo me in realtà la situazione di difficoltà rimane. C’è innanzitutto un fenomeno di deflazione in atto, che potrebbe diventare un problema molto serio. La bolla immobiliare è appena scoppiata e la deflazione si è installata nell’economia con una grande difficoltà di trasformarla in stabilità. Teniamo conto che il settore immobiliare in alcuni momenti degli ultimi decenni è arrivato a contare anche il 25/30% dell’economia cinese. Lo scoppio della bolla blocca da un lato le vendite di case, dall’altro crea problemi economici alle banche che hanno finanziato le società immobiliari, e poi ha anche risvolti sociali gravi: molte persone che avevano pagato un anticipo su una casa si sono ritrovati a mani vuote perché i costruttori nel frattempo sono falliti. Poi, come dicevo, c’è l’attacco del Partito comunista cinese alle società private, o perlomeno il tentativo di ridimensionarle, che è un altro elemento che non incoraggia certo l’investimento privato. Sono tutte tendenze che fanno sì che alcuni tratti tipici dell’economia cinese stiano ora cambiando.
L’India in questo caso rappresenta è un’alternativa a cui rivolgere l’attenzione?
Lo è già. Una parte di investimenti che escono dalla Cina, o che non si dirigono più lì, oggi vanno in India. Altri anche in Vietnam, o in Indonesia, ma l’India è sicuramente definibile come il Paese emergente del momento. Ha uan forte stabilità politica, le elezioni che si terranno fra pochi mesi vedranno plausibilmente una nuova vittoria di Modi, poi c’è stata un po’ di deregulation (considerando che era un paese che aveva una serie di invadenze della politica dell’economia, che oggi sono state sfrondate). Inoltre, cosa importantissima, sono state costruire delle infrastrutture straordinarie negli ultimi anni: strade, ferrovie, aeroporti, porti… Con l’obiettivo del Paese di diventare, oltre che forte paese nell’hi-tech, anche una forte economia manifatturiera, che è quella che garantisce più occupazione, in un paese che cresce demograficamente moltissimo ed è ormai il più popoloso del mondo. Dal punto di vista geopolitico si trova poi in una posizione chiave: ha un problema di conflitto storico con la Cina e quindi è importante per gli Stati Uniti averla come partner su molte questioni (anche sulla sicurezza e difesa), e poi è leader del cosiddetto “global south”, tutti quei paesi che non sono allineati né con gli Stati Uniti né con la Cina ma che si posizionano in base alle varie situazioni in un modo o nell’altro. Sull’India al momento si può scommettere, secondo me.
Torniamo all’Unione europea: come se ne rilancia la competitività? Seguendo a ruota Stati Uniti e Cina nella logica dei sussidi?
La cosa è complicata: i punti di forza dell’economia europea sono quelli dell’apertura dell’economia dei suoi paesi. Pensiamo alla Germania e all’Italia che si configurano come grandi esportatori oltre che importatori. Gli europei non hanno gran voglia di diventare protezionisti, non è nel loro dna e nel loro modello di sviluppo. Questo mentre, come dicevamo, cinesi e statunitensi vedono un protezionismo crescente oltre che un nazionalismo politico in avanzamento e un intervento sempre maggiore dello Stato nell’economia. Di fronte a questo l’Europa è obiettivamente in difficoltà. La domanda per gli europei oggi è: facciamo anche noi come gli Stati Uniti, intervenendo con grandi investimenti pubblici e statali, oppure continuiamo a puntare sul nostro modello aperto di libero mercato? Insomma, per battere i Cinesi diventiamo statalisti come loro? La mia risposta personale è che non dovremmo, ma un gran numero di governi ritiene che sia positivo farlo, come la Germania e la Francia, che vorrebbero aiutare le loro imprese a quel punto, però, a scapito di altri paesi.
Intanto molte imprese italiane – lo dico dalla lettura dei giornali – stanno facendo operazioni straordinarie negli Stati Uniti…
Sì, e la scelta risponde in primis al fatto che l’economia americana – nonostante i problemi politici che ha il paese – è poderosa e ancora in crescita (di ben il 2,5% l’anno scorso, da prima economia mondiale). E poi a quello che dicevamo, ossia agli incentivi messi in campo dall’amministrazione Biden, che attraggono sicuramente investitori europei. E poi c’è il fattore Trump da tenere in considerazione…
Che succederebbe su questo fronte se venisse rieletto?
Trump ha già dichiarato che imporrà su tutta una serie di settori – tantissimi – dazi molto alti, fino addirittura al 60%. A quel punto sarebbe si aprirebbe di fatto una guerra commerciale, il che cambierebbe tutto, perché non riguarderebbe solo la Cina ma anche i Paesi europei. L’arrivo di Trump insomma sarebbe un accadimento molto serio da questo punto di vista, che vedrebbe probabilmente una chiusura delle economie importanti.
E così l’Europa resterebbe in mezzo, isolata, fra Cina e Stati Uniti.
Questo è un rischio, dopo di che ci sono ovviamente altri paesi con cui commerciare, non possiamo parlare di isolamento vero. E poi teniamo in considerazione che l’Europa non è che non conti proprio niente, le sue economie sono comunque forti. La stessa economia americana dovrebbe fare i conti con questo fattore, e risentirebbe probabilmente per prima delle eventuali scelte di Trump. Sarebbe costretto ad un certo punto a ridimensionarsi. Anche Washington, insomma, dovrebbe stare molto attenta a percorrere questa direzione di chiusura del mercato. In ogni caso possiamo dare per scontato che entreremmo in un’era di grande incertezza, ancora maggiore di quella che viviamo oggi.
Ha citato la forza delle economie europee e dunque non possiamo non parlare anche della situazione della Germania. Il ruolo di leader in questo momento lo riveste con una certa difficoltà…
Ovviamente per noi è un problema serio, perché come sappiamo siamo fornitori – di alta gamma – dell’industria tedesca. La Germania negli ultimi 15 anni è stata sicuramente il motore d’europa, non solo per la crescita economica ma anche grazie alla sua stabilità. Ora è in confusione, sia dal punto di vista politico che di modello economico. Il modello che è stato valido in passato, infatti, fondato su energia a basso costo dalla Russia e grandi esportazioni nel mercato cinese è andato in crisi su tutti e due i pilastri. Per la Germania – e per l’Europa – è una fase “post-merkeliana” che impone un cambiamento del modello di sviluppo. Credo che il Paese possa uscire da questa situazione, ma il governo attuale è bloccato, ha dentro divisioni e crolli nei sondaggi, con l’opposizione di destra radicale che cresce. È quasi una tempesta perfetta.
Mi sembra di capire che la risoluzione delle difficoltà tedesche non sia possibile nel brevissimo termine.
Sì, non credo sia domani il giorno buono, insomma. Ma i tedeschi alla fine ce la fanno sempre, magari sono lenti all’inizio ma poi accelerano.
Un ultimo tema: la crisi nel canale di Suez non si è ancora risolta, e sta danneggiando le imprese. Quali scenari abbiamo davanti?
La situazione è ormai critica da dicembre, non credo possa durare per sempre eppure una soluzione in effetti non si vede ancora. In campo ci sono sia navi europee che americani e inglesi, e questo mi fa credere che a un certo punto un risultato militare contro gli Houthi lo avranno. Intanto i costi dei noli crescono parecchio, il fatto di dover circumnavigare l’Africa aumenta costi e i tempi di consegna – sulla cui velocità puntavano molte imprese italiane. In più, se la situazione nel Mar Rosso va avanti, rischiano molto i porti italiani. Ora le navi infatti non hanno grandi ragioni per entrare nel Mediterraneo, possono fermarsi in Spagna, o a Tangeri, nel nord del Marocco, o ancora proseguire direttamente per i porti del Nord Europa. Potrebbero esserci problemi seri di riduzione del traffico per i nostri scali. Intanto, approfitto per aggiungerlo, resta il nuvolone nero delle guerre sopra le nostre teste. A seconda di come finirà in Ucraina e in Medio Oriente e di quello che succede a Taiwan ci saranno notevoli ricadute politiche ed economiche. L’evoluzione della guerra condotta da Putin, in particolare, per noi europei rischia di essere decisiva.