Con la cultura non si mangia, sentenziò un noto politico italiano anni fa. Fu una delle frasi più infelici (e meno veritiere) che un Ministro potesse aver mai pronunciato. Ma fu una affermazione illuminante sulla percezione che le classi dirigenti di questo Paese hanno di uno dei fattori determinanti dello sviluppo economico e sociale. “La cultura ci fa ricchi” dicemmo noi in una edizione del Festival Citta Impresa di una decina di anni fa per replicare. E oggi, alle chiusure imposte dai ministri lockdownisti del governo, verrebbe da replicare con un’altra battuta: “Di cultura non si muore. E invece, senza cultura, muore il paese”
Ma la percezione della classe dirigente è ancora quella che abbiamo citato all’inizio. Tanto è che, la crisi legata alla pandemia, ha amplificato questo atteggiamento portandolo a livelli assurdi e punitivi nei confronti del mondo della cultura. E a pagare il conto salatissimo dei provvedimenti assunti nelle settimane scorse non non tanto le istituzioni culturali che continuano a ricevere consistenti contributi anche a fronte della loro totale inattività (si peni ai fondi del Fus) o i lavoratori assunti che beneficiano almeno della Cig, quanto l’esercito dei non tutelati, composto da artisti, tecnici e allestitori.
La prima scelta dei fautori del lockdown sociale, culturale ed economico del Paese per limitare i contatti sociali è stata dunque quella di chiudere scuole, cinema e teatri. Tanto – hanno pensato – fanno cose inutili. Cultura appunto, con la quale non si mangia. Una scelta autolesionista per un Paese che, invece, dovrebbe puntare tutte le sue carte su formazione e crescita culturale soprattutto dei più giovani.
Una scelta assurda dunque, perché cinema e teatri, così come le scuole, sono assai più in grado di mantenere il distanziamento sociale che le passeggiate sulle piazze nelle città, le file per entrare nei negozi per il black friday o per fare i tamponi per verificare se siamo positivi o meno. Ma tant’è. Se l’idea è che la cultura è un elemento inutile, chiudere tutto non è considerato un sacrificio. Tanto – avranno pensato – gli studenti non producono nulla e chi va a vedere un film o uno spettacolo lo fa come passatempo.
Cosa accade invece negli altri paesi? In tutta Europa le scuole non sono mai state chiuse o i blocchi sono stati limitati al minimo indispensabile. In Francia, che è il paese che ha avuto il numero più alto di contagi in questa seconda ondata già si stanno lentamente riaprendo cinema e teatri. Così, mentre gli altri si preparano a riaprire i luoghi della cultura, in Italia di questo nemmeno si parla né si discute. E questo mentre gli effetti di tutti questi lockdown sono che siamo sempre e comunque il Paese che vede il numero di vittime per milione di abitanti e contemporaneamente quello il cui declino economico è più accentuato.
Del resto, se è vero che la ricchezza economica e culturale vanno di pari passo, come è stato per la Firenze del Rinascimento o la Venezia dei Dogi, l’Italia persegue da anni una linea che, pervicacemente, si batte per avere meno cultura è più povertà. Tanto che, le battaglie che oggi facciamo in Europa, non sono per riaprire gli spazi culturali, ma per la cancellazione del debito. La stessa battaglia cioè che alcuni anni orsono si faceva per i paesi africani.