Per 15 anni direttore del centro di biotecnologie International Center for Genetic Engineering and Biotechnology di Trieste, dall’anno scorso si è spostato a Londra, dove è professore al King’s College London. È il triestino Mauro Giacca, noto anche per la sua rubrica Al Microscopio su Il Piccolo, scienziato e ricercatore che si occupa di rigenerazione cardiaca, anche se da oltre due mesi ha messo in stand by la sua attività di ricerca per lavorare insieme al suo gruppo di lavoro londinese su nuovi farmaci per contrastare il Covid 19. E dalla sua posizione “privilegiata” fuori dall’Italia, gli abbiamo chiesto di fornirci un quadro di quello che si avverte dall’estero in materia di riaperture e Fase 2.
Professor Giacca, come giudica le misure introdotte sinora dal governo italiano per contrastare la diffusione del virus?
Da quello che leggo e sento da Londra, l’Inghilterra e l’Italia, nonostante abbiano avuto un impatto abbastanza simile della rilevanza del contagio, si sono comportate in maniera molto diversa. L’Italia è arrivata impreparata, colta di sorpresa, mentre l’Inghilterra era un po’ più preparata, perché il virus è arrivato dopo. Ma soprattutto il tipo di risposta è stato molto diverso. In Inghilterra l’approccio è stato molto più razionale e rispettoso delle libertà individuali: non c’è mai stato l’obbligo tassativo di stare a casa, anche se c’è stato un incentivo molto forte a farlo, né tantomeno l’obbligo tassativo alla mascherina, quindi in tutto questo periodo nelle strade c’è stata gente in bicicletta o in macchina, e non ho mai visto la polizia che controllasse, tranne gli assembramenti. E poi il messaggio è stato molto preciso: stare lontani gli uni dagli altri. In questo modo è passata l’informazione che il virus si trasmette da una persona all’altra, e soltanto se si sta vicini a questa persona. Quindi è stata una prevenzione basata sulla responsabilizzazione, non sulla coercizione, individuando degli obiettivi precisi e corretti dal punto di vista epidemiologico, per esempio quello del distanziamento sociale. In Italia invece la sensazione è che ci siano stati dei falsi obiettivi, tipo “state a casa”, che è utile, nel senso che se uno sta a casa sta lontano dagli altri, ma non è utile fine a sé stesso, per cui la gente aveva paura a uscire di casa. Voglio dire, uscire di casa stando da soli lontani dagli altri fa molto meglio alla salute che starsene da soli a casa. E sono stati veicolati messaggi o obiettivi non necessariamente primari, come l’utilizzo della mascherina. Che senso ha accanirsi con la persona che sta da sola nel bosco perché non ha la mascherina? O con la persona che sta in spiaggia lontano da tutti? Sono obiettivi surrogati, non reali, che hanno fatto un po’ distorcere il messaggio principale. La riapertura in Italia secondo me sarà un problema, perché la gente non ha percepito realmente che deve stare lontana dagli altri, ma è come se avesse percepito che prima c’era qualcosa nell’aria che contagiava e adesso non c’è più e quindi si può tornare alla vita di prima.
Dal suo punto di vista, è possibile trovare un compromesso per garantire la sicurezza ma allo stesso tempo per non far morire le attività economiche?
Certo che è possibile, e non siamo noi a doverlo inventare, guardiamo come hanno affrontato l’epidemia gli altri Paesi. Abbiamo parlato dell’Inghilterra, ma guardiamo alla Germania, alla Svezia. La ripartenza e la gestione della quotidianità devono essere basate sul buon senso e sulla responsabilità individuale, non su leggi che penalizzano ancora di più quelli che sono già penalizzati. È come se ci fosse stato un uragano, e le persone che cercano di togliere le macerie dovessero essere assoggettate a tasse o regole ferree che impediscono la ripartenza. Questo Paese deve riacquistare un po’ di buon senso. Anche dal punto di vista scientifico c’è una grande differenza: qui in Inghilterra ci sono 15 fonti di finanziamento e tutti i ricercatori sono stimolati a lavorare su Covid, c’è un fermento che non avevo mai visto nella mia carriera, mentre in Italia i ricercatori sono relegati a casa, non c’è un fondo per il finanziamento, tutti sono scoraggiati ad andare in laboratorio, il CNR non ha mascherine né guanti, non c’è ricerca virologica, ma in compenso c’è gente che twitta, va a talk show televisivi, parla senza aver mai visto il virus.
In questo senso secondo lei l’informazione ha aiutato a diffondere un clima di paura?
Assolutamente sì, l’informazione, invece che dare serenità, ha sparso terrore, e molti di questi pseudo-esperti che si vedono in televisione o su Twitter ne hanno approfittato per aumentare la loro notorietà, per scrivere libri e farli rendere. In altri Paesi, almeno da quello che ho visto da qui, c’è stata un’informazione molto più rasserenante. Secondo me questa crisi da coronavirus ha accentuato tutte le criticità del nostro Paese.
Lei come vede l’organizzazione di eventi all’aperto nei prossimi mesi?
Non solo si può fare, ma si deve fare! Le mostre, i musei, gli eventi devono ripartire, ovviamente con buon senso, non con una sala gremita con tutte le persone appiccicate, dovranno essere un po’ più disperse. E visto che adesso c’è l’estate, bisognerà fare eventi all’aperto, ma che siano tanti, perché c’è proprio bisogno di questo!
Come giudica, per quello che ha potuto vedere da dove si trova, la comunicazione del governo?
Secondo me il problema non è il governo, il problema è tutta la classe politica italiana, compresa le governance locali e delle Regioni, che hanno dimostrato globalmente di non essere all’altezza. Il Paese ha dimostrato che la gestione dell’emergenza sanitaria non può essere fatta a livello regionale. Questi litigi assurdi tra Regione e Regione, con decreti fatti gli uni contro gli altri…tutti gli altri Paesi hanno delle linee guida comuni che partono a livello centrale e vengono implementate con raziocinio a livello regionale, in Italia invece c’è stato il caos più assoluto. Se c’è qualcosa che questa crisi ha dimostrato è stata proprio la pochezza di chi ci governa, a livello generale, dalle amministrazioni locali, al governo centrale.