Desertificazione commerciale.
Desertificazione è parola spaesante che diventa pesante accompagnata dai numeri della crisi del commercio. Rimanda al rischio di rimanere senza paese non solo nei piccoli borghi ma anche nelle città quando le percorriamo distratti senza vedere l’intervallarsi di saracinesche abbassate di esercizi commerciali perché, a proposito di numeri, siamo abituati e ci interroghiamo sui grandi numeri delle crisi industriali. Non fa statistica il lento e progressivo sommarsi delle vite minuscole che chiudono con la saracinesca un progetto di vita così come, non ci accorgiamo se scompare l’abituale bancarella al mercato rionale. Anche la politica si appassiona di più nell’usare quei numeri nell’eterno ritorno della questione fiscale tra lavoratori autonomi e dipendenti.
Eppure, quella desertificazione rimanda nel suo inaridire al venir meno di reti sociali di prossimità, a proposito di città in 15 minuti, ed a quelle economie fondamentali della vita quotidiana e delle forme di convivenza. Mi ricordo sempre il monito di Carlo Sangalli nel venire avanti dei ghetti sull’avere attenzione «a quando si spengono le luci delle latterie in periferia». Ma data dignità sociale ai bottegai ed ai commercianti la questione di quei numeri e di quel deserto non è affatto questione di nostalgia. Anzi, e tutta dentro l’iper-modernità che avanza che, se non temperata, produce il deserto. E non è solo questione di tassazione.
Quella fiumana di vite minuscole in difficoltà è tartassata dai flussi da Amazon, dai grandi centri commerciali nel loro essere “non luoghi” alternativi di socialità, dai flussi turistici in overbooking, dalla gentrificazione, dai grandi temi della denatalità e della mutazione antropologica del lavoro che intacca eredità imprenditoriale e disponibilità flessibile nell’economia dei servizi, per non citare l’economia dell’algoritmo e l’incombente intelligenza artificiale. È il capitalismo delle reti bellezza!!!
Si potrebbe continuare
cahiers de doléances.
Eppure, anche in questo scenario quella rete sociale in difficoltà può diventare una risorsa sociale ed economica di rigenerazione nella metamorfosi. Come si può rigenerare le aree interne del patrimonio ambientale e del turismo lento senza “la bottega” che fa anche da polo dei servizi per la posta e per la medicina di territorio nei comuni polvere e nei piccoli comuni? Così come nei progetti di rigenerazione urbana dei centri storici gentrificati e delle periferie ad allarme sociale non si può prescindere dal rigenerare il tessuto del commercio di prossimità che fa da place maker (Granata). Infatti, ogni volta che un esercente ridisegna con i suoi tavolini spazi e marciapiedi urbani diventa un piccolo urbanista, tanto per dirla banalmente. Noi raccontiamo spesso, malati di spettacolo, solo i luoghi della movida che fanno problema invece di tessere e ritessere quella rete del commercio che va dai piccoli comuni alle città ed alle aree metropolitane da rigenerare. Non sono forse queste le indicazioni per tanti progetti delineati nel PNRR? Per darci speranza nell’attraversare il deserto userei una parola antica ben nota a chi fa impresa: fare distretto del commercio. Così come i distretti manifatturieri si sono evoluti e irrobustiti facendo filiera, così le oasi distrettuali dei piccoli comuni, delle città medie e grandi sono una filiera di sviluppo locale ed urbano funzionale a contrastare la desertificazione del nostro vivere ed abitare. Certo ci vuole un progetto di speranza per riattivare pratiche ed economie di prossimità, ma sono convinto che i flussi senza i luoghi, compresi quelli del commercio, da soli non bastano.