Abbaglia l’effetto Icaro che può prendere anche le città quando perdono la propria ombra che disegna spazio di posizione territoriale e accoglienza e ristoro per il viandante. Metafora di questi tempi del postumano accecante guardando a Los Angeles o a SpaceLink che vanno ben oltre al mio adagio territoriale città-contado da microcosmi. Con cui ho sempre letto e vissuto Milano prima che lo spazio di rappresentazione da città globale, da città stato, ne facessero una città premium luccicante. Immemore del suo essere Mediolanum, città di mezzo, città operosa che sta in mezzo. Forse per questo credo utile occuparmi più delle sue ombre, che rimandano alle reti territoriali e di composizione sociale che fanno città, che del suo luccicare. Avendo imparato da Bernardo Secchi che «Ogni qualvolta la struttura economica dell’economia e della società cambia, la questione urbana torna in primo piano, generando politiche e progetti per la città». Così ne scriveva nei suoi studi e ricerche sul Veneto centrale rintracciando le porosità di quella metamorfosi territoriale che solo ora la pedemontana veneta cerca di rappresentare come una città lineare. Porosità e isotropia che evocano la città liquida sono le parole chiave. (Anfione e Zeto rivista di architettura n. 25)
Aveva colto nel fine secolo nel suo contrapporre isotropia a gerarchia il passaggio dalla città fabbrica alla città posfordista in espansione non solo come fabbrica diffusa, ma come genealogia di quella economia dei servizi e delle reti che avevano nei nodi urbani l’iperindustrializzazione di nuove forme dei lavori e di composizione sociale. Tornando a Milano chi non ricorda a proposito di gerarchia da sistema ordinatorio fordista l’ultimo sussulto che ipotizzava un patto, un GE-MI-TO, tra le città del triangolo industriale del ‘900. Era iniziata l’epoca dei flussi della globalizzazione soft, finanza, innovazione manifatturiera e dei servizi, nuove forme dei lavori che facevano della porosità di Milano nel suo essere stata la meno fordista del triangolo, anzi nel suo stare in mezzo come le città anseatiche nel mare padano, il tessuto economico e produttivo dove atterrare in quella euforia da Milano da bere. Veniva avanti la “città infinita” con i flussi globali che facevano onda territoriale e sociale, di banche e finanza, di professioni e servizi, di commercio e turismo di università e ricerca, di migrazioni, di reti hard e soft, di neomanifattura, ridisegnando la piattaforma lombarda contaminando così, anche le città medie e le città distretto nel divenire snodo di funzioni delle metamorfosi. Che sarà bene ricordare non avvengono senza conflitti e resistenze: cambiava la fabbrica, il rapporto città-contado, la composizione sociale, che rimandano a lotte operaie, al sindacalismo di territorio, alla forbice mai chiusa della migrazione tra accoglienza e intolleranza.
Eppure, sembrava fatta con tanto di riti e miti di celebrazione del salto d’epoca: la centralità delle aree metropolitane come governance, il Salone del Mobile come nuova fiera campionaria globale e tanto di Expo a certificare la grande Milano nel circuito globale. Vien da chiedersi cosa ha interrotto la porosità sociale e la isotropia orizzontale di Milano? In primis sono cambiati i flussi: la globalizzazione a pezzi, il Covid, le guerre con tanto di urbanicidio che vediamo in Ucraina e a Gaza, hanno fatto della città infinita un legno storto a cui non basta l’albero della cuccagna dell’apparire. Cambio di scena non colto. Era necessario tenere assieme o mettersi in mezzo a interessi e visioni di un primo mondo delle grandi economie delle reti e dei flussi, delle piattaforme che hanno occupato la scena e in basso la città delle infinite vite minuscole del vivere a Milano. Forse più che delegare le tessiture sociali al capitalismo delle reti hard e soft spesso a braccetto con quelle della rendita, era necessario un nuovo patto sociale per la vita agra delle vite minuscole per abitare, formarsi, curarsi, spostarsi, socializzare nuove forme di convivenza e dei lavori…
Questione prepolitica che interroga sia l’afasia del rappresentare il divenire di una composizione sociale metropolitana che il racconto della politica. Per cercar di capire mi rileggo Secchi, guardo perplesso a quelli che disegnano la megalopoli padana, osservo boschi verticali e città foresta urbana, (Boeri-Cucinella) scompongo la città infinita nell’urbano regionale e nel PIM, (Balducci-Bolocan) imparo guardando alla coscienza dei luoghi e ai placemaker (Magnaghi-Granata) avendo chiaro che il ritrovare l’ombra del buon vivere non è solo questione di urbanisti o architetti, ma di tutti noi.