Ci sono territori cartina di tornasole delle eccellenze di impresa e città ma anche di quella medietà operosa silente che tesse e ritesse molecole di impresa e lavori. Le denominiamo sullo sfondo delle eccellenze la Brianza, la Marca trevigiana, la via Emilia con un non so che di fastidio. Giulio Bollati osservava che c’è sempre un primo popolo che ne interpreta e racconta dall’alto un secondo. Quei territori sono piattaforme di un fare “fabbrica diffusa” e di trasformazione dell’uomo artigiano, della sua antropologia, in filiere e reti del nuovo triangolo industriale postfordista disegnato, a proposito di primi e secondi, dal capitalismo delle reti. Anche di città per chi sogna la Padania come Los Angeles da Torino a Bologna con Milano al centro. Sogno da megalopoli fantasmagorica come lo era quello diametralmente opposto di quotare la Padania nel cielo della politica. In mezzo rimane un po’ silente e preoccupato quel secondo popolo che guarda alle sue città distretto in metamorfosi. Ho seguito sull’asse Brianza-Milano, un laboratorio di queste dinamiche, sia la Convention di Confindustria che quella recente di Confartigianato. Nel ’900 del conflitto tra capitale e lavoro, il lavoro autonomo di prima generazione era una sorta di ossimoro tra i due campi, un po’ padroncino e tanto lavoro nel capannone. Poi a cavallo del secolo emerge un lavoro autonomo di seconda generazione esito del primo impatto di una globalizzazione ancora progressiva e della terziarizzazione come economia della conoscenza. Oggi siamo al dispiegarsi di un terzo ciclo, quello dell’algoritmo, con il delicato rapporto tra lavoro autonomo, imprenditorialità, automazione e intelligenza artificiale. Che impatta a Milano, Monza e provincia quanto in Confindustria e in Confartigianato. Siamo di fronte ad un rimescolarsi della composizione sociale, ad una amalgama in cambiamento nella quale concezioni del fare impresa, tecnologie, cambiamenti sociali interagiscono nel produrre nuovi processi del valore mostrati anche dalle statistiche, con la contrazione di lungo periodo del capitalismo molecolare di prima generazione, la fatica dei capitalisti personali nell’economia della conoscenza, ma anche l’emergere fragile di un lavoro autonomo e di una imprenditorialità di terza generazione. Attraversata e sfidata dall’intreccio selettivo tra trasformazioni geopolitiche e demografiche, sfide ambientali e antropologie territoriali. Siamo di fronte ad un salto d’epoca: mentre nel ’900 valeva l’adagio weberiano della “proprietà obbliga” rispetto alla comunità, oggi siamo dentro il tempo “dell’innovazione che obbliga” a guardare oltre le mura delle città e dell’impresa. L’antropologia brianzola non è più solo capannone e operosità, con la cura per la comunità del lavoro che l’impresa manda avanti o il rancore di chi subisce le trasformazioni, perché la sola antropologia della prossimità di contatto non basta più. È invece sempre più, il confluire di progettualità di sindaci, rappresentanze, autonomie funzionali, terzo settore, capitalismo intermedio e capitalismo molecolare su analisi che pongano l’esigenza di costruire la piattaforma territoriale. Che tiene assieme le pluri-identità di una molteplicità produttiva che va dalla meccatronica al design, passando dalle reti della ricerca alla logistica, dalle utilities alle multinazionali, con una trama policentrica di città medie, città distretto che circondano Milano. Mi pare l’abbiano capito rappresentanze come Assolombarda o Confartigianato che hanno ripensato i propri perimetri per intrecciare il policentrismo brianzolo delle “Tre Brianze” con l’high-tech vimercatese, il ruolo di nodo metropolitano di Monza e l’ovest del design, con la piattaforma metropolitana milanese. Un passaggio che porta ad intrecciare anche composizioni produttive e sociali del capitalismo delle reti, della conoscenza, della creatività provando a rappresentare filiere sempre più lunghe e plurali creando connessioni che vanno oltre la tradizionale identità “corporativa” e puntano invece a creare alleanze e coalizioni, comunità larga nella governance territoriale per abbassare la soglia di rischio. Nel ’900 l’ingegner Gadda aveva colto che nei salotti milanesi si guardava e parlava solo di frigoriferi, mobili e automobili fatti in Brianza, mentre oggi nei salotti della città globale Milano – solo per dirne una – si ragiona poco su come tenere assieme la rigenerazione dei capannoni e il bosco verticale nella transizione ecologica. Eppure, il Salone del Mobile avrebbe dovuto insegnare che senza l’innovazione dei primi, non si dà nemmeno il secondo. Allora, si disegnava il Ge.Mi.To. del triangolo fordista (Genova-Milano-Torino) ed oggi c’è chi disegna la megalopoli padana da Torino a Bologna. Non sembri riduttivo il mio fare Mi-Mo tra Milano e Monza. È solo un segnalare che se ce la farà il nostro capitalismo di territorio a reggere l’urto della metamorfosi, molto dipenderà anche dal ridisegnarsi dell’urbano regionale. Nella Brianza con Milano guardando poi alla Via Emilia della logistica a Piacenza ed all’automotive a Modena, sino alla Marca trevigiana del Nord Est. Non basta tracciare una linea di sorvolo tra grandi città per disegnare futuro.