Terzo settore o terzo racconto? Mi chiedo guardando all’inizio di quel quarto di secolo che ha visto la moltitudine del terzo settore superare i metalmeccanici fuori dalle mura nella fabbrica sociale a supporto o sostituzione del welfare state o entrare dentro le mura con il welfare aziendale. Numeri interroganti che se evitiamo disquisizioni statistiche e ci inoltriamo nella composizione sociale, ci rimandano sia al salto d’epoca del modello produttivo che al Forum del terzo settore come nuova rappresentanza di passioni e interessi. Per questo non mi pare una domanda banale. Denominare e denominarsi rimanda alla soggettivazione, alla coscienza e conoscenza di sé e al come e dove collocarsi nello spazio di rappresentazione sociale. Anche perché in quell’essere denominati come terzo settore o aggettivarsi come racconto si sfiora una questione tutta politica che rimanda all’eterotopia della terza via che ci porterebbe oltre un microcosmo. Rimanendo ai fondamentali della crisi del welfare e del municipalismo sociale, che ne fanno da sole una questione prepolitica, si delineano due strade da percorrere.
La prima induce a scalare la montagna della statualità tornante dopo tornante affermando numeri e ruolo per risalire dal terzo posto. La seconda meno tracciata, induce a raccontare la crisi sociale e al raccontarsi assieme nel darsi visibilità per contare nel nuovo secolo dove senza rappresentazione non c’è rappresentanza. Parrebbe una questione da filosofia da aut-aut, risolvibile con una ardita sintesi da et -et. Si percorre la filiera della statualità che oggi porta anche in Europa ed a confrontarsi con i fondi Esg che sgocciolano dai flussi che sorvolano il mondo e ci si rappresenta come rete funzionale di un terzo welfare per i tanti che non hanno né il welfare state né quello aziendale. Ma nello scomporre e ricomporre la composizione sociale della moltitudine lillipuzziana del sociale molecolare, ci accorgeremo che pochi sono quelli che salgono i tornanti per arrivare in cima e tanti sono quelli che percorrono i sentieri di una terzietà fatta di impegno nel raccontare e volere un altro mondo possibile mobilitando le inquietudini che attraversano la società sabbia. Facendo di quelle inquietudini un racconto sociale e quindi politico che viene prima e non dopo le economie, ai fondi europei Pnrr o di Esg e di un welfare prosciugato come un ghiacciaio in piena crisi ecologica.
Questo è spesso ciò che si trova in cima alla montagna dopo l’ultimo tornante e ci si mette in mezzo tra Stato e Mercato, tra Economia e Politica, tra Terra e Territorio raccontando comunità, società e crisi ecologica. Racconti di vite minuscole, altro dalle retoriche dei flussi che stanno in cima alla montagna delle differenze, per prender parola e contare oltre le statistiche che danno conto delle povertà e ogni tanto delle buone notizie da «per fortuna c’è il terzo settore». Sono economie delle vite minuscole che rimandano all’abitare, al formarsi, al curarsi, spostarsi, socializzare oltre la solitudine, alle forme di convivenza… alla «vita nuda» delle economie fondamentali e della riproduzione della capacità umana vivente (Alquati) che fanno dire a Zamagni «non siamo terzo settore, siamo e denominiamoci quelli dell’economia civile». Racconti del legno storto del territorio nel suo essere spazio di posizione e costruzione di piattaforme sociali dai comuni polvere alle città medie ai quartieri metropolitani sul confine del margine che fa racconto e voce ponendo oggi come centrale, la questione sociale. A cui dar voce con un intelletto collettivo sociale in grado di rigenerare quella intimità dei nessi (Becattini) dappertutto e rasoterra (De Rita) che producevano tracce di comunità operose che oggi producono capitale sociale in distretti sociali evoluti che anticipano e interrogano l’economia sul confine della crisi ecologica e del modello di sviluppo. Più che arrancare sui tornanti per arrivare primi, o potenziare la comunicazione nella società dello spettacolo, forse sono i tempi del come rigenerare società. Spostando lo sguardo critico da ciò che è istituito alla prassi istituente (Esposito) con un terzo racconto che si confronta con la metamorfosi sociale delle rappresentanze, delle istituzioni, del welfare, mai come oggi urgente e necessario. Ci hanno appena lasciati due maestri di racconti di vita: lo psichiatra Eugenio Borgna e il fondatore delle riviste «Vita» e «Communitas», Riccardo Bonacina. Eugenio con la sua rivoluzione gentile educandoci all’ascolto dell’altro e Riccardo insegnandoci a comunicarlo ci hanno lasciato un metodo. Pratichiamolo…