Lo racconta con il sorriso sulle labbra, perché, dice “non possiamo lasciarci andare e cadere in depressione”. Ma le sue parole sono tanto lucide quanto spietatamente critiche nei confronti delle scelte operate dal governo. “Lo vuole sapere? – ci dice, ritenendoci un normale avventore e ignorando che queste sue parole saranno qui riprese – è da marzo che qui non si guadagna un euro, i clienti sono spariti perché nella stazione qui di fronte non circola più nessuno. E ora che devo pagare le tredicesime non so dove andare a prendere i soldi.”
È un ragazzo dal viso pulito, sulla trentina – o poco più – quello che ci parla, che qualche anno fa ha investito tutto per comprare un vecchio bar di fronte alla stazione di Vicenza, rendendolo bello e accogliente, riqualificando così anche un’area che un tempo era – ed è ancora in parte – luogo di spaccio, che, non a caso, dopo il suo arrivo, si è spostata di li. “Ho investito 500.000 euro ed ho alle spalle ancora un paio d’anni di mutuo da pagare. Ora rischia di andare tutto in fumo. Anni di sacrifici e duro lavoro per costruirmi una prospettiva buttati al vento. E io sono anche fortunato – continua – mentre tanti miei amici e colleghi che hanno aperto locali qui in città stanno già chiudendo perché non ce la fanno più”.
Ma quanti? Gli chiediamo. “Sono tanti – risponde – davvero tanti. Ragazzi che magari ci hanno messo 50 – 60.000 euro presi a prestito, e che ora non solo vedono svanire il loro sogno ma che si ritroveranno a trent’anni carichi di debiti e con un fallimento alle spalle. E allora fuggiranno. Fuggiremo. All’estero. Porteremo in un paese straniero la nostra voglia di lavorare e di creare. Perché questo è un paese che non ci vuole. Ce ne sono tanti di giovani come me che hanno voglia di fare, così come ce ne sono tanti che non hanno voglia di fare nulla. Così questi ultimi resteranno qui e noi ce ne andremo. Ma che razza di paese è – si chiede retoricamente – quello che fa scappare i suoi giovani migliori e più volonterosi?”
Paghiamo il nostro caffè, con la tentazione di lasciargli qualche euro in più. Ma, siamo certi che ne rimarrebbe offeso, perché la sua richiesta non è quella di avere la carità o sussidi, ma solo di poter lavorare. E allora paghiamo quel che è dovuto e ce ne andiamo, lasciando il bar vuoto e lui immerso nei suoi pensieri. Un locale aperto che riempie il vuoto di una stazione ferroviaria dove il bar interno, un tempo sempre affollato, è già stato chiuso. Perché, evidentemente, per la società che lo gestisce, conviene tenerlo chiuso piuttosto che aprirlo e assorbire i costi del personale.
E così lui rimane lì con la speranza che a gennaio finalmente si possa riaprire. Così forse lui ce la potrà fare. Altrimenti, come i suoi colleghi che si sono già arresi, come le migliaia di giovani che all’estero erano già fuggiti dopo la crisi del 2008, se ne andrà. Lasciando un paese di vecchi, che protegge solo gli anziani, e non pensa, ne forse ha mai pensato, a costruire futuro per i suoi giovani.