Chi poteva immaginare solo 18 anni fa, che nel giro di meno di vent’anni qualcuno potesse interrogarsi sul riutilizzo degli spazi del Museo progettato da Mario Botta? Eppure, anche a rischio di essere definiti catastrofisti, numeri alla mano, il problema, purtroppo, bisogna porlo. E l’uscita, garbata ma polemica del direttore Maraniello, non è altro che l’ultimo episodio che certifica il persistente declino di quel progetto culturale.
Dagli anni d’oro di Gabriella Belli ad oggi, lentamente ma progressivamente, il Mart si è andato spegnendo. Dai 232.140 visitatori complessivi nel 2010 si è passati ai 145.797 nel 2015, a 153.106 nel 2016 per scendere ancora a 141.088 nel 2017. Numeri che, però, da soli non dicono tutto. Se si guarda, per esempio ai report pubblicati sul sito del Mart, si scopre che mentre nel 2012 i visitatori paganti (nella sola struttura del Mart) sono stati poco più di 96.000, sei anni dopo, nel 2018 questi sono scesi a poco più di 50.000. Praticamente dimezzati. E se allora i paganti erano l’80%, nel 2018 si erano ridotti al 49%. Questo a fronte di 12 milioni di euro di entrate, di cui soltanto 1,4 milioni da biglietteria e ben 7 milioni di contributi dalla Provincia Autonoma di Trento.
La leggenda narra che gli anni di Gabriella Belli sono lontani, e soprattutto che sono lontani gli anni nei quali le risorse scorrevano a fiumi. Affermazione che solo in parte corrisponde a verità. E’ vero che, tra il 2010 e il 2012, l’anno prima che Gabriella Belli decidesse di traslocare in laguna, il bilancio passa da 12,2 a circa 10,7 milioni, con un taglio di circa 1,5 milioni e i contributi della Provincia scendono da 6.229.862,00 nel 2010 a 5.978.099,00 nel 2011 fino a 5.614.107,10 nel 2012. Ma è anche vero, sempre stando agli annual report pubblicati sul sito del Museo, che nel triennio 2016 – 2018 il bilancio torna a una media di 12,5 milioni l’anno e i contributi della Provincia a una media di 7 milioni, E’ vero, per esempio che le sponsorizzazioni private sono fortemente diminuite negli anni, ma stiamo parlando di cifre pari a 200mila euro nel 2010 che su un bilancio di 10 milioni di euro rimasto sostanzialmente stabile negli anni. Il problema, dunque, non è stato di risorse, ma di gestione e di indirizzo.
Per chi ha avuto modo negli ultimi anni di vedere il Mart degli anni migliori e poi quello degli ultimi anni il declino appare evidente. Tanto per dare l’idea, per un lungo periodo, perfino la caffetteria è stata chiusa, riaprendo solo ora grazie all’ingresso di un ristorante stellato che, se ha permesso di recuperare in prestigio, non ha certo da solo potuto invertire il trend.
La crisi di gestione e di indirizzo, insomma viene da lontano, e, se va indicato un anno nel quale si determina il coma cerebrale del Mart, questo è il 2014, l’anno nel quale Franco Bernabè prima e Cristiana Collu poi, lasciano quello che doveva essere il motore culturale della provincia autonoma nelle mani dei trentini.
A portare a questo esito, diversamente a quanto si pensa, non pare essere stata la scelta di Dellai di aprire il 23 luglio 2013 il Muse, una realtà museale (di taglio completamente diverso dal Mart) che ha macinato numeri record di visitatori. Aprire il Muse, che serviva anche a giustificare la costruzione – risultata poi fallimentare – dell’enorme complesso immobiliare delle Albere, ha influito in minima parte al declino del Mart. Il Muse, infatti, numeri alla mano, ha sottratto relativamente pochissime risorse al Mart. Quello che invece non sembra aver funzionato è stato il meccanismo che avrebbe dovuto portare ad una promozione complementare di attrattività del territorio. Così il Muse, forte di una linea strategica elaborata da Michele Lanzinger, uno dei migliori direttori di Musei in Europa, ha macinato risultati positivi, mentre il Mart ha inziato una sua rapida discesa finendo schiacciato nella dicotomia tra una visione elitaria dell’arte contemporanea e una visione “provinciale” della cultura.
Al 2014 risale infatti l’estromissione di Franco Bernabè, che prima con Gabriella Belli e poi con Cristiana Collu, era riuscito a dare un profilo nazionale riconosciuto ad un museo collocato in una città oggettivamente periferica. Certo, l’epoca Bernabè esprimeva a tratti un approccio elitario ma garantiva anche un profilo e un prestigio culturale che il Trentino non ha più avuto da allora. E se dobbiamo guardare anche strettamente ai conti, fatto salvo che in una Provincia Autonoma la macchina pubblica spende cifre impensabili per qualsiasi altro territorio meno fortunato, il Mart del dopo Bernabè è costato di più in proporzione ai visitatori paganti, di quanto non sia costato negli anni successivi alla sua gestione.
Ma cosa è accaduto in quegli anni da provocare il declino? Non c’è dubbio che l’involuzione del Mart sia seguita all’affermazione dei partiti autonomisti, portatori di una visione localistica che mai avrebbe potuto incrociarsi con il ruolo, la missione e la tradizione di quel Museo. Una visione localistica che, per capirci, non aveva una visione alternativa, ma soltanto critica nei confronti delle èlite culturali che avevano gestito il museo. Una alternativa di successo avrebbe potuto essere quella di mixare pop e arte contemporanea, come ha fatto per esempio Artesella, luogo riconosciuto dell’arte contemporanea europea e, allo stesso tempo, meta di migliaia di visitatori e turisti. Ma così non è stato. A sostituire una figura di spicco nazionale come Bernabè sono infatti stati chiamati esponenti dell’imprenditoria locale con sistemi di relazione nazionali e visioni culturali oggettivamente assai più limitate.
L’arrivo della Lega al governo della Provincia Autonoma ha rappresentato infine, aldilà delle stesse intenzioni dei protagonisti, l’esito finale di questa crisi. Come spesso accade al centrodestra quando arriva al governo, non avendo tra le sue fila un tessuto di sensibilità articolato, tende a risolvere i problemi chiamando Vittorio Sgarbi.
Il problema non è ovviamente Sgarbi, intellettuale di raffinita cultura e debordante capacità provocatoria. Il problema è che Sgarbi è la risorsa intellettuale che viene chiamata in tutte le città d’Italia dove il centrodestra va al governo. Certo, per fare il presidente non è necessario essere al Mart a tempo pieno, ma Sgarbi non è persona che delega a un direttore le scelte. Non è un manager con la passione dell’arte, lui è il critico d’arte. Lui fa e disfa, decide, entra nei dettagli, impone la sua linea. E, per quanto sia un indefesso lavoratore, qualsiasi museo delle dimensioni del Mart avrebbe bisogno di una persona dedicata a tempo pieno capace di decidere. Pensare di risolvere tutte le politiche culturali di tutti i comuni italiani attraverso il genio di un singolo è praticamente impossibile, se non altro perché non ha il tempo di costruire qualcosa che poi segni una traccia nel tempo. Il carattere dell’uomo è poi tale per cui, per un qualsiasi direttore, è difficilissimo lavorare con lui.
Riuscirà il Mart a riprendersi dal coma prima che diventi irreversibile? E la crisi del Coronavirus non porrà ora seriamente anche il tema di un contenimento reale delle risorse tale per cui, senza progetto e senza risorse, prima o poi si dovrà staccare la spina? Per carità, se a livello istituzionale e politico qualcuno decidesse per un nuovo inizio, per un ritorno alle origini che permetta di riscoprire la mission di quella struttura, forse si potrebbe anche pensare di essere in grado di rianimarla. Ma saranno capaci i politici trentini di affrontare questa sfida? Temiamo di no, non per sfiducia in questa o quella amministrazione ma perché non percepiamo dalle comunità di quei territori una capacità di visione che vada oltre l’ordinario. Naturalmente ci auguriamo di sbagliare. Ma se così non fosse converrà seriamente pensare a come riutilizzare quella magnifica struttura, evitandole un degrado anche fisico che non merita.