Fabbriche aperte o chiuse? Prima la salute delle persone o dell’economia? I luoghi di lavoro sono sicuri o possono essere zone di contagio del COVID-19? In questi giorni frenetici e drammatici, con continui e repentini cambi di scenario e di narrazioni, è difficile orientarsi nel labirinto delle scelte possibili. Le istituzioni giocano la loro partita, tra senso di responsabilità di fronte a una crisi senza precedenti e fisiologica attenzione al consenso, in una escalation di restrizioni. Con una comunicazione macchiata da errori grossolani e forti contraddizioni. I cittadini hanno reagito dapprima ignorando l’emergenza, affollando spiagge, negozi e piste da sci, e poi adeguandosi, purtroppo sempre con qualche eccezione, alle misure e al motto #iorestoacasa.
In mezzo, i corpi intermedi dello Stato. Categorie economiche e organizzazioni sindacali. Che si sono scontrate e confrontate sull’ipotesi di un blocco totale delle attività economiche. Fabbriche comprese. Dopo le prime proteste e scioperi effettuati o solo minacciati, il Governo ha convocato le parti sociali che, dopo un’ampia discussione, sono riuscite a condividere il testo di un protocollo che garantisca sia la continuità produttiva, sia la sicurezza dei lavoratori. Ovviamente questo non è bastato per spegnere le preoccupazioni di chi, quotidianamente, si trova in prima linea, di chi sta in produzione o in un cantiere e non può beneficiare dello smart working. Ma è stato comunque una prova di maturità, per tutti. Non è facile trovare un punto di equilibrio tra esigenze diverse, tra fattori che, comunque, insieme contribuiscono alla stabilità economica e quindi sociale del Paese, nel pieno di una crisi che è anche di nervi.
Adesso, però, è fondamentale compiere un ulteriore passo in avanti: costruire un clima sociale positivo, per affrontare l’emergenza e, in un secondo momento, la ricostruzione sulle macerie politiche, economiche e sociali che questa crisi provocherà. E’ questa la sfida più importante per i corpi intermedi.
Non c’è spazio (non ci deve essere) per divisioni tra “noi” (noi chi?) e “loro” (loro chi?), per chi vorrebbe recuperare tra le piaghe della storia del Paese vecchie contrapposizioni ideologiche e di classe. Il Novecento è finito. Non c’è spazio (e non ci deve essere) per la nostalgia, che genera spesso rabbia e frustrazione. Non c’è spazio (e non ci deve essere) per le strumentalizzazioni, per chi, anche in questa situazione di sofferenze umane, vorrebbe recuperare la centralità smarrita, rispolverando vecchi schemi e slogan del passato, arrivando addirittura a soffiare sul fuoco delle paure collettive. Non c’è spazio (e non ci deve essere) per chi pensa di non ascoltare la voce degli altri, le preoccupazioni e il disorientamento di fronte a una situazione inedita, accentuata da un sistema di informazione e comunicazione che, per sua natura, si alimenta di impulsi emotivi che viaggiano veloci nel web, a scapito della razionalità e spesso della verità. Non c’è spazio (e non ci deve essere) per chi vorrebbe arroccarsi nel proprio giardino, a difesa dei propri interessi egoistici o di parte.
E’ il momento di costruire ponti, non steccati o muri. Ciò vale in generale, ma – si diceva – vale soprattutto per quei corpi intermedi che, oggi più che mai, sono chiamati ad una prova di grande resposabilità. Va recuperato lo spirito di comunità di olivettiana memoria, che molti studiosi ancora valorizzano. E’ il caso dell’economista Raghuram Rajan, secondo il quale “una buona comunità moderna supporta i propri membri pur essendo al tempo stesso aperta, inclusiva e dinamica”, “aiuta a definire chi siamo” e “ci conferisce un senso di potere, la possibilità di creare il nostro futuro di fronte a forza globali”.
Il coronavirus si sta abbattendo su di noi con la forza di un uragano. Dobbiamo allora trovare il nostro “occhio nel ciclone” e, come suggerisce Thomas L. Friedman, questo non può che essere una comunità sana. “Le persone inserite in una comunità – scrive – si sentono protette, rispettate e collegate (…) e quella sensazione è più importante che mai, perché sentirsi protetti, rispettati e collegati in una comunità sana genera fiducia (…) quando le persone si fidano le une delle altre possono pensare a lungo termine. Dove c’è un’atmosfera di fiducia, si è più inclini a collaborare e a sperimentare – ad aprirsi agli altri, a nuove idee e approcci innovativi – (…) e non si spreca energia a fare il processo ad ogni errore”.
Se c’è una sfida che i corpi intermedi, categorie e sindacati, devono giocare in questa crisi è dunque proprio quella di contribuire alla costruzione di comunità sane, generando un clima sociale positivo, orientato alla cooperazione e alla fiducia reciproca, contro la rabbia, l’ansia e le paure. Solo così vinceremo il virus e usciremo da questa situazione più forti.
Come ogni crisi, anche questa può offrire nuove opportunità. Sta a noi coglierle
*Direttore Generale Confindustria Belluno Dolomiti