“La classe avversa” segna una metaforica conclusione di un ciclo di letteratura. Ottiero Ottieri nel 1957 scrive “Tempi stretti”, romanzo che unisce una storia di affetti tra Emma e Giovanni e di vita in fabbrica. “La classe avversa” riprende questo doppio piano – affetti e lavoro – e, in un gioco di richiami con ”Tempi stretti”, propone, a più di sessant’anni di distanza, una lettura del contesto familiare e professionale dell’Italia di oggi.
Un testo che per i temi trattati potrebbe segnare il finale di partita di un modello industriale che ha fatto grande parte del nostro Paese: quella media industria familiare che grazie all’unità dei suoi componenti ha saputo creare ricchezza per tutti. Un sistema che spesso è andato in crisi nei passaggi generazionali, di cui Albertini si occupa in lungo e in largo nella trama del romanzo. Un figlio che non riesce a trovare spazio adeguato nell’azienda di famiglia fa da contraltare ad un direttore generale che in modo dispotico la conduce con il solo obiettivo di un tornaconto personale. Non che la media azienda italiana sia destinata a finire, è la sua gestione fatta spesso di una congenita incapacità di riprogettarsi per superare la prova della seconda o terza generazione che la rende debole alle avversità di questi tempi.
“La classe avversa” è un romanzo sofferto, pieno di realismo puro che ci racconta tutto quello che si deve evitare e quel poco che bisogna fare. Libro da inserire, per la sua crudezza e per la sua forma logica (si percepisce che è scritto da una persona che ha vissuto simili contesti), nei percorsi di studio di molte business school italiane. Proprio quelle business school che tanto cercano di insegnare un metodo – il management – e che rischiano di dimenticarsi che le aziende sono fatte prima di tutto di affetti, poi di cultura e solo alla fine di strumenti. Albertini non risparmia nulla al suo protagonista – ad es. una vita sregolata sotto il profilo sessuale – ma lo pone al di sopra, anche delle sue capacità morali, nel cercare di preservare il bene aziendale: quella di comunità di uomini e donne che fanno, attraverso il fare, un’azienda. Quasi che l’impresa sia più importante della famiglia che l’ha generata. È quel DNA che un imprenditore, nel bene e nel male, consegna ai suoi figli e che, per ragioni solo apparentemente strane, frequentemente, fa di tutto perché essi lo rinneghino. Sembra un paradosso, a testimoniare che molti imprenditori amano su piani diversi la loro azienda e i loro figli. Ma il loro amore diventa cieco, incapaci di capire che per definizione la parola amore non può essere declinata con la possessività, l’atto egoistico. Un amore vero deve essere sempre generativo, mai distruttivo.
Per fortuna che negli ultimi anni la situazione sta cambiando e l’approccio verso il passaggio generazionale sta diventando oggetto di attenzione da parte di tanti studiosi e consulenti che aiutano molte famiglie a trovare strade nuove per dare prospettiva e vigore alle loro realtà industriali. Una consapevolezza che aiuta le compagini aziendali e che salva tante vite – quelle dei figli – che altrimenti sarebbero schiacciate da un peso enorme che sopra di loro, prima aleggia, e poi rischia di scaraventarsi.