Il Festival Città Impresa di Vicenza vedrà tra le protagoniste le imprese Champions, aziende capaci di allargare la propria prospettiva a livello mondiale, radicandosi alle proprie tradizioni territoriali. Imprese che hanno affrontato le varie emergenze degli ultimi anni dando un contributo importante al Paese. Perché l’ecosistema economico continui a crescere nella sua interezza, e il contributo di queste imprese possa essere valorizzato, è di fondamentale importanza che ci sia un confronto proficuo tra imprenditori, politica, economisti e altre figure chiave di questi territori, come dichiara Raffaella Polato, inviata del Corriere della Sera e direttrice del Festival Città Impresa.
Polato, come escono da questo periodo, senza dubbio complesso, le imprese Champions, pronte a ritrovarsi a Vicenza?
I Champions escono in buona salute. Certo, il biennio passato sarà ricordato come uno dei più duri per l’economia, ricordiamo lo stop dovuto alla pandemia, le incredibili difficoltà legate all’approvvigionamento delle materie prime, agli aumenti dei costi dell’energia e in ultima l’inflazione a tassi altissimi. Ma per queste aziende sarà ricordato comunque come un periodo d’oro. Il risultato è stato un biennio di un aumento sia del fatturato, sia di quella marginalità che è il vero motore della crescita, perché margini più alti significano maggiore solidità finanziaria e capacità di investimento. Due anni così buoni che, con gli stessi parametri delle edizioni precedenti, le imprese Champions sarebbero raddoppiate: accanto alle Mille entrate a pieno titolo tra le aziende eccellenti, il Centro Studi di ItalyPost ha dovuto lasciar fuori dal perimetro quasi altre 1.300 società che, con parametri poco inferiori, avrebbero comunque meritato il titolo.
Ricordiamo che stiamo parlando di piccole-medie imprese: la dimensione può essere per loro un fattore limitante?
È vero che le nostre imprese sono mediamente piccole imprese. Può essere a volte limitante per gli investimenti. Ma siamo davvero sicuri che siano così piccole come crediamo? Le Champions valgono 82,2 miliardi di giro d’affari, 60,6 di patrimonio netto, 9,1 di cash, una redditività industriale del 19% sul fatturato e un ritorno del 14,5% sul capitale. Non c’è investimento al mondo, alta speculazione a parte, che renda altrettanto. Quanto alla crescita: gli 82 miliardi del 2021 sono il 25% in più rispetto al 2020, l’anno in cui tutto è crollato. Ma non le Champions, che hanno invece mantenuto ricavi e redditività e addirittura rafforzato il patrimonio netto. In quello stesso 2021 il Pil italiano ha messo a segno l’incremento record del 7%. Diciamo che, pur senza considerare il robusto effetto traino-moltiplicatore sulle rispettive filiere, il contributo delle Top Mille dovrebbe essere evidente. Non lo fosse, integriamo con un ultimo dato: 4,4%. Il peso (netto) dei Champions sul Pil.
Ma qual è il segreto della loro crescita?
Sono imprese che, a volte in settori di nicchia, sono assolutamente innovative. Magari si occupano di componenti di prodotti molto più complessi, ma su quel settore sono leader a livello mondiale per innovazione, tecnologia e anche per sensibilità. Il loro segreto è investire tanto nell’azienda: fanno utili e la maggior parte di questi, in certi casi il 100%, è reinvestito nell’attività industriale, cosa che li porta ad essere sempre all’avanguardia. Il secondo segreto è che nonostante siano proiettate nel mondo, hanno un fortissimo legame con il territorio in cui sono nate e in cui spesso continuano a operare. È il famoso “glocal”: testa e cuore dell’azienda sono ben saldi nelle radici italiane e regionali, mentre la proiezione è globale.
Quali sono le sfide che le imprese hanno già in parte vinto, e quali invece restano ancora da affrontare, fra quelle che hanno caratterizzato l’ultimo biennio?
L’industria italiana dopo il covid ha recuperato meglio di quella tedesca e di quella francese. Perché nelle crisi flessibilità e tempi di reazione sono determinanti. Le nostre Pmi sono rapide e veloci nel cambiare la propria organizzazione, la filiera di fornitura e in certi casi perfino il prodotto. Basti pensare ai pilastri della teoria dei processi organizzativi il cui presupposto era l’eliminazione delle scorte di magazzino. Le imprese Champions, che hanno costruito la loro fortuna anche sulla lean production, hanno saputo per prime reinterpretarne la filosofia. Mantenendo centrale l’attenzione al cliente, hanno riempito i magazzini in modo da essere in grado di garantire le forniture in tempo. La sfida più grande, invece, è saper gestire il cambiamento continuo dei nostri tempi. Ma lo sanno fare perché hanno affrontato una pandemia, prezzi impazziti del mercato, e continuano a farlo con una guerra in atto.
Quanto margine di manovra hanno effettivamente le imprese in un contesto globale così complesso, segnato ad esempio da tensioni geopolitiche molto forti? Alcuni analisti economici in questi mesi hanno messo in discussione anche la globalizzazione.
È vero che il covid prima, e la guerra in Ucraina poi hanno messo a dura prova la globalizzazione e hanno fatto saltare interi modelli. La pandemia ha bloccato la logistica mondiale, la guerra, invece, ha acuito un problema geopolitico che però già c’era. Per questo motivo sarei cauta a dire che la globalizzazione è morta. Il mondo si è ancora di più polarizzato su due fronti di mercato, ovvero quello americano e quello cinese. E in questo le imprese hanno avuto ancora una volta grande capacità di visione. In tempi non sospetti alcune aziende hanno creato due poli di esportazioni e lavorando su due fronti internazionali, diversi tra loro tecnologicamente, sono riuscite a mantenere una presenza capillare ovunque compensando i momenti di crisi globale. Quindi s, come è successo con il covid, la Cina si bloccasse, avrebbe un mercato in America comunque aperto. Viceversa se qualche evento esterno dovesse colpire quello statunitense.
Quali temi emergeranno al Festival che, secondo lei, non trovano sufficiente spazio nel dibattito pubblico o fra imprenditori?
Uno dei temi che non trova abitualmente spazio, non solo tra gli imprenditori, ma nell’intero dibattito pubblico, è quello della demografia, a cui si lega il tema dell’immigrazione. Le nascite sono sempre meno ed è un problema in prospettiva per il nostro welfare, ma oggi c’è un problema di carenza di manodopera. E non solo nei lavori considerati più umili. Quindi cercheremo di porre questo tema al centro del dibattito così da poter creare una discussione propositiva per la soluzione di questi problemi.