Da questa esigenza, la fame, nasce questa tecnica di conservazione delle carni. Nacquero così la pitina e le sue varianti peta e petuccia, che differivano dalla pitina per le diverse erbe aromatiche aggiunte nell’impasto e, nel caso della peta, per le dimensioni più grandi. L’animale veniva disossato e la carne triturata finemente nella pestadora (un ceppo di legno incavato). Alla carne si aggiungevano sale, aglio, pepe nero spezzettato.
In Val Tramontina, zona di produzione della pitina, si univa anche rosmarino selvatico. In Val Cellina, area di produzione della petuccia, finocchio selvatico e bacche di ginepro. La peta, versione “magnum” della pitina, era tipica di Andreis, in Val Cellina: più grande della pitina e della petuccia, rotonda, leggermente schiacciata, poteva pesare anche un chilo. Con la carne macinata si formavano piccole polpette, si passavano nella farina di mais e si facevano affumicare sulla mensola del fogher. La pitina, col passar del tempo, si asciugava e per consumarla occorreva ammorbidirla nel brodo di polenta. Oggi la pitina è ingentilita da una parte di carne di maiale (lardo o capocollo) che smorza il sapore intenso e un po’ selvatico della carne di capriolo, capra o pecora.
L’affumicatura si realizza con diversi legni aromatici, a volte mescolati tra loro ma con la prevalenza del faggio.
L’abbinamento con i vini non è difficile in una terra come il Friuli-Venezia Giulia che vanta una gamma straordinaria di vini bianchi. Si può spaziare dal Sauvignon al Pinot Grigio, anche se forse, il cuore, consiglia il Friulano. (www.fattoriefriulante.it)