Per capire meglio, vale la pena riprendere in mano il documento della Business Roundtable degli Usa, firmato nel cuore dell’agosto 2019 da più di 180 top manager (quelli di Amazon, Apple, Accenture, BlackRock, IBM, JP Morgan, Goldman Sachs, Coca Cola, General Motors, At&T e delle altre grandi aziende della «Corporate America», con 15 milioni di dipendenti).
Si rovescia la shareholder theory di Milton Friedman e dei suoi Chicago Boys («La responsabilità sociale delle imprese consiste nell’aumentare i profitti»), che ha nutrito e distorto pensieri e azioni economiche dagli anni Ottanta fino alle soglie dell’oggi. E si sostiene invece che, accanto ai profitti, compito delle imprese sia quello di arricchire la vita dei propri dipendenti, dei consumatori, dei fornitori e delle comunità, nel rispetto dei diritti e dei valori delle persone e dell’ambiente. Dal liberismo di Friedman si torna al liberalismo con forti componenti sociali di John M. Keynes, finalmente riletto, reinterpretato, riportato alla ribalta dell’attualità politica, economica e culturale contemporanea.
Quello di Schwab e della «Corporate America», dunque, non è solo un gioco di comunicazione e di marketing per cercare di salvare con una riverniciata green gli interessi di un business che incontra crescenti critiche etiche e sociali. Più probabilmente è una «sterzata nella filosofia degli imprenditori», come ha titolato, entusiasta, nell’agosto 2019 The Wall Street Journal. È «la svolta etica del capitalismo», secondo il Corriere della Sera. Opportunista o meno che sia stata quella svolta, le dichiarazioni dei documenti hanno una loro forza, una certa solennità.
A guardare ancora meglio che cosa si muove concretamente nel mondo degli affari, si nota il rafforzarsi di una scelta tutt’altro che banalmente comunicativa. Larry Fink, presidente di BlackRock, il più grande fondo di investimenti del mondo, ha scritto a metà gennaio 2020 una lettera ai vertici delle principali società mondiali e agli investitori che hanno affidato a BlackRock le loro risorse e i loro risparmi, avvertendo che il Fondo premierà solo le imprese che punteranno su progetti sostenibili e voterà contro gli amministratori di aziende che non si occuperanno del climate change.
Un buon consiglio viene anche dal Financial Times, su che cosa debba fare «un’impresa virtuosa» in tempi di crisi, per uscirne rafforzata: evitare innanzitutto di pensare in termini angusti, di concentrarsi sul proprio apparente vantaggio immediato, in termini di risparmi e tagli e privilegiare invece l’equilibrio e la tenuta complessiva del sistema di cui fa parte, contribuendo così «al bene comune» e ricavandone «un vantaggio decisivo». Serve «lungimiranza»: l’epidemia si sta incaricando di punire manager e azionisti che hanno inseguito «il Sacro Graal della sempre maggiore efficienza», sacrificando «solidità, resilienza ed efficacia» e, in fin dei conti, la loro stessa impresa. Bisogna andare oltre le scelte di breve termine, le forniture decise in base al minor costo possibile, lo sfruttamento del precariato nei rapporti di lavoro.
Secondo il Financial Times chi ha fatto scelte più solide, invece, non solo resisterà, ma prospererà nella crisi. La priorità, raccomanda il quotidiano della City, dovrebbe essere ricostruire «robuste riserve di liquidità», grazie anche agli aiuti che arrivano dalla Ue, nel rispetto di criteri di equità e responsabilità. C’è un secondo aspetto, su cui insiste il quotidiano britannico: le aziende che hanno puntato troppo sul just in time dovranno passare al modello just in case, mirando non solo a tagliare i costi e a condizionare i fornitori su tempi e prezzi, ma a ragionare con loro in termini sistemici, di squadra, di interesse comune a medio-lungo termine. E sarà dunque responsabilità delle imprese che sopravvivranno meglio delle altre «aiutare le componenti più piccole e fragili della loro filiera, anziché perseguire l’approccio menefreghista che distrugge l’intera catena».
Responsabilità e qualità, insomma. Gli elementi cruciali di una strategia post crisi. Insiste il Financial Times: «proprio come le imprese costruite sulle fragili basi della gig economy rischiano di collassare, quelle che hanno mantenuto una rete di sicurezza fatta di lavoratori a tempo pieno fedeli e adattabili hanno più probabilità di farcela. E saranno più pronte a fronteggiare futuri disastri». Un buon esempio di sostenibilità.
Maria Cristina Piovesana, vicepresidente Confindustria con delega ad Ambiente, Sostenibilità e Cultura e presidente Assindustria Venetocentro – Imprenditori Padova Treviso
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Filiberto Zovico, fondatore ItalyPost