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Stefano Zamagni insegna Economia politica all’Università di Bologna ed è adjunct professor of International political economy alla Johns Hopkins University di Bologna. Tra i più conosciuti economisti italiani, ex presidente dell’Agenzia per il terzo settore, è stato di recente nominato presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali. È apprezzato a livello internazionale per i suoi studi in materia di economia civile e sociale. L’intervista è a cura di Tito Menzani.
È vero che siamo entrati nella stagione della quarta rivoluzione industriale?
Sì, è ormai generalmente acquisito che quello attuale è un vero e proprio passaggio d’epoca e non una naturale evoluzione di tendenze già in atto durante la lunga fase della società industriale. La quarta rivoluzione industriale si ripercuote sulla nostra condizione di vita e incide sull’articolazione delle nostre società. Ed è pure ampiamente noto che all’origine dell’attuale transizione c’è anche il fenomeno della globalizzazione. Ma mentre intorno a quest’ultimo la letteratura è già folta, non altrettanto può dirsi in riferimento alla quarta rivoluzione industriale, che pure ha portata epocale. Ovvero, non sappiamo ancora come le nuove tecnologie e la cultura che le governa modificheranno l’essenza del capitalismo degli anni prossimi.
Che effetti avrà sulla società e sull’economia?
È maldestramente riduttivo identificare la quarta rivoluzione industriale unicamente come un nuovo paradigma tecnologico. Insistere solamente su tale dimensione non permette di cogliere gli elementi di rottura sui fronti sociale e culturale che questo fenomeno emergente sta evidenziando. Il che non consente di impostare linee di intervento all’altezza delle sfide odierne. Personalmente non mi riconosco né nella posizione dei cosiddetti tecno-pessimisti, né in quella degli esaltatori acritici delle nuove tecnologie. Se hanno torto i laudatori della quarta rivoluzione industriale, non hanno ragione i suoi denigratori. Considero, infatti, l’attuale traiettoria tecno-scientifica come qualcosa in sé positivo, e comunque inarrestabile, che però va governata con saggezza, cioè con ragionevolezza, e non solo con competenza, cioè con razionalità.
Qual è il nuovo paradigma tecnologico della quarta rivoluzione industriale?
Il riferimento principale è alle cosiddette «tecnologie convergenti». Sono quelle che risultano dalla combinazione sinergica di nanotecnologie, biotecnologie, tecnologie dell’informazione, scienze cognitive, tanto che sono chiamate anche con l’acronimo Nbic. L’espressione tecnologie convergenti discende proprio dalla circostanza che nella quarta rivoluzione industriale non c’è stata una nuova scoperta o un’innovazione di rottura, come invece è stato il caso in tutte e tre le rivoluzioni precedenti.
E le tecnologie convergenti hanno già mostrato le proprie potenzialità?
La promessa di un potenziamento, e quindi di una trasformazione, sia dell’uomo sia della società, che le tecnologie convergenti del gruppo Nbic oggi fanno dà conto della straordinaria attenzione che la tecnoscienza va ricevendo in una pluralità di ambiti. Il fine perseguito non è solamente il potenziamento della mente, e neppure solamente l’aumento della capacità diagnostica e terapeutica nei confronti di tutta una gamma di patologie, e neppure ancora il miglioramento dei modi di controllo e manipolazione delle informazioni. Ciò verso cui si vuole tendere è l’artificializzazione dell’uomo e, al tempo stesso, l’antropomorfizzazione della macchina. È a Julien Huxley che si deve l’invenzione della parola transumanesimo, per descrivere un mondo futuro in cui avremo una continua ibridazione dell’umano. Come movimento globale, il transumanesimo si è sviluppato nella Silicon Valley, grazie agli interventi di Google e Apple il cui scopo è costruire un «uomo aumentato» nelle sue capacità. È su questo che è oggi urgente sollevare il velo del silenzio, aprendo un dibattito di alto profilo.
A quale rischio ci troviamo di fronte?
Sono due le concezioni di uomo che si vanno confrontando: quella dell’uomo-persona e quella dell’uomo-macchina. Quest’ultima sta guadagnando terreno sulla prima. Il che spiega, tra l’altro, perché l’ideale dell’uomo-macchina stia determinando oggi una vera e propria emergenza educativa: la formazione (o istruzione) ha preso il posto dell’educazione. Spesso istruzione e educazione sono usati come sinonimi ma non sono la stessa cosa. Istruire significa immettere nozioni nella testa dell’allievo. Viceversa, educare, dal latino educere, significare tirare fuori, far emergere. L’uomo-macchina chiede istruzione; non gli serve l’educazione. È la teoria dell’equilibrazione, secondo la quale il motore dello sviluppo mentale del bambino e del giovane è un processo di adattamento cognitivo a impulsi provenienti dall’esterno. Nulla di più meccanicistico! Un segnale inquietante di tale riduzionismo è la progressiva scomparsa della figura dell’educatore. Il maestro è ridotto a un facilitatore o a un mediatore che non deve educare, ma solamente favorire il processo di autoapprendimento, perché sembra avere valore solo ciò che si è fatto da sé. È questa una delle più devastanti conseguenze dell’individualismo libertario. Non solo, ma l’antiautoritarismo declamato, secondo cui non bisogna condizionare né guidare le presunte scelte «libere» del soggetto, nasconde in realtà una visione ben più autoritaria: solo l’esperto di autoformazione può parlare di scuola. Ma i metodi didattici non danno conoscenza, né consentono di misurarla in modo oggettivo, come si tende a credere.
Che cos’è l’industria 4.0 e perché se ne parla tanto?
Si tratta di una espressione coniata dall’azienda tedesca Bosch e presentata per la prima volta alla fiera di Hannover nel 2011. Di fatto è una delle più rilevanti novità associate alla quarta rivoluzione industriale, ovvero una nuova modalità organizzativa della produzione, manifatturiera e non. Intelligenza artificiale, robotica, genomica, informatica, tra loro collegate secondo una relazione moltiplicativa, stanno letteralmente rivoluzionando sia il modo di produzione sia il senso del lavoro umano. La fusione tra mondo reale degli impianti e mondo virtuale dell’informazione, tra mondo fisico degli uomini e mondo digitale del dato ha fatto nascere un sistema misto cyber-fisico che mira a sciogliere quei nodi che i modelli del passato non erano stati in grado di realizzare: come ridurre gli sprechi, raccogliere informazioni dal processo lavorativo e rielaborarle in tempo reale, anticipare errori di progettazione per mezzo della virtualizzazione della fabbrica, valorizzare appieno la creatività del lavoratore, incorporare le specifiche richieste del cliente in tutte le fasi del processo di produzione. Chiaramente, affinché questa Industria 4.0 possa generare i risultati attesi è indispensabile che si realizzi una radicale innovazione organizzativa, abbandonando l’obsoleto modello ford-taylorista basato sulla gerarchia e su una spinta specializzazione delle mansioni.
Cosa occorre fare?
A poco serve acquisire le nuove macchine e attivare le piattaforme tecnologiche se non si realizza il change management che sappia valorizzare i comportamenti cooperativi e sviluppare la cultura della partecipazione tra tutti coloro che operano nell’impresa. Ecco perché, ormai da qualche tempo, si va parlando dell’urgenza di inserire nelle imprese nuove figure professionali quali il digital innovation officer, responsabile dell’innovazione digitale, il technology innovation manager, facilitatore dell’innovazione, il data protection officer, responsabile della protezione dati e della privacy, il coding expert, che insegna come ordinare alla macchina di svolgere un determinato compito attraverso il linguaggio di programmazione, e altre ancora. Si tratta di professioni indispensabili per gestire al meglio i mutamenti imposti dall’uso di big data, di internet of things, e nel prossimo futuro di internet of the beings, che rappresenta la terza fase della vita della rete. È proprio la mancanza di tali figure a dare conto delle difficoltà del tempo presente. Siccome il lavoro non è più un posto, ma un flusso, un’attività che può essere condotta in luoghi diversi, creatività e innovatività vengono richieste a tutti i lavoratori e non solo a chi svolge ruoli dirigenziali. La multinazionale americana AT&T ha introdotto un sistema di «raccolta delle idee» entro l’azienda del seguente tipo: i lavoratori raggruppati in squadre presentano ai dirigenti il proprio progetto come se fossero davanti a un venture capitalist che deve decidere se finanziarlo o meno. I lavoratori sono così indotti ad assumersi una parte il rischio e ciò che fa sorgere problemi per quanto concerne gli assetti sia di governance sia proprietari.
Ci può affrescare qualche scenario concreto di questo futuro?
Certamente, basti pensare a quel che potrà accadere a breve, con l’impiego su vasta scala, delle stampanti 3D, applicate non solo sul fronte della produzione, ma esteso a quello del consumo. Come noto, il modello della stampante 3D è autoreplicante e libero. Potenzialmente, una stampante 3D potrebbe permettere alle imprese di produrre lotti di una sola unità di prodotto. Il che significa che essa può riprodurre le sue stesse parti (quelle che sono di plastica) e poiché gli schemi sono disponibili a tutti con pochi clic, ciascuno può col tempo apportare i suoi miglioramenti e condividerli con altri. Il modo di concepire e di produrre della stampante è all’opposto dei gesti attenti dell’artigiano. Tale modo procede per fabbricazione additiva: il modello in tre dimensioni è scomposto in strati orizzontali molto sottili, così che l’oggetto è costruito partendo dalla base fino alla cima, come una sovrapposizione di lamelle. Il lavoro non incontra più la resistenza del legno o della pietra. L’inventore della stampante 3D, Adrian Bowyer, aveva in animo di realizzare con la sua macchina ciò che Karl Marx credeva di poter compiere con una rivoluzione politica. Scrisse che la stampante 3D avrebbe permesso una appropriazione rivoluzionaria dei mezzi di produzione da parte del proletariato, perché il consumatore sarebbe potuto diventare anche produttore. Il neologismo che racconta tutto ciò è prosumer. E Jeremy Rifkin ha profetizzato che in ogni quartiere si troveranno stampanti 3D più performanti di quelle che un singolo cittadino potrebbe acquistare; e in questi luoghi i vicini di casa potranno aiutarsi per fabbricarsi tutto quanto serve alla vita domestica secondo i loro progetti. Naturalmente, il futuro prossimo si incaricherà di mostrare se si tratta di qualcosa di reale oppure di semplice utopia.
Entriamo più nel merito della questione del lavoro: ci saranno maggiori opportunità occupazionali o le macchine rimpiazzeranno sempre più l’uomo?
I tecno-ottimisti ad oltranza basano la loro visione circa gli effetti della rivoluzione digitale sulla celebre profezia di John Maynard Keynes, che diceva che le macchine avrebbero liberato gli uomini dal lavoro, per cui l’umanità avrebbe potuto dedicarsi alla coltivazione delle arti e del pensiero filosofico. Non poteva certo immaginarsi che dopo la seconda, sarebbero scoppiate due altre rivoluzioni industriali, la cui cifra è la marcata accelerazione con cui si realizza il mutamento tecnologico: da intergenerazionale a intragenerazionale. È questa iperaccelerazione che non consente una metabolizzazione del nuovo: l’avanzamento tecnico-scientifico corre più velocemente della riflessione etica. Secondariamente, il meccanismo della distruzione creatrice, colpisce più pesantemente quelle economie la cui forza lavoro è meno capace di recepire il nuovo. E infatti sono i paesi emergenti quelli che oggi più risentono dei rischi occupazionali associati alla nuova ondata di automazione. D’altro canto, i tecno-pessimisti pensano che il lavoro diventerà sempre meno importante e sempre più lavoratori saranno rimpiazzati dalle macchine. Un recente rapporto del centro di ricerca britannico Nesta pare confermare questo pessimismo quando chiarisce che non bastano più le skills specialistiche ad assicurare l’occupabilità. Quel che in più la nuova traiettoria tecnologica richiede sono abilità di tipo relazionale, quali empatia, propensione al lavoro di squadra, autonomia.
E lei come la pensa?
Sono dell’avviso che se il digitale cambia la relazione tra conoscenza e lavoro, mettendo in discussione i posti di lavoro tradizionali e se è vero che la tecnologia ha sempre distrutto e creato lavoro, l’esito non è una società senza lavoro, ma una trasformazione certamente radicale dello stesso. Si consideri, infatti, che il meccanismo di sostituzione che ha funzionato, più o meno bene a seconda dei casi durante la prima e seconda rivoluzione industriale, oggi con l’intelligenza artificiale non funziona più. Allora le macchine sostituivano il lavoro fisico dell’uomo spingendo verso mestieri di maggiore valore cognitivo; ora l’intelligenza artificiale copre tutto lo spettro cognitivo. Ora, se è vero che non si può trascurare l’effetto spiazzamento nei confronti del lavoro che automazione e intelligenza artificiale vanno provocando, è del pari vero che, se si volesse, potrebbero essere attivate forze che spingono nella direzione opposta, quella dell’aumento della domanda di lavoro. Penso all’effetto produttività: diminuendo il costo di produzione dei compiti automatizzati, l’economia si espande e ciò provoca un aumento della domanda di lavoro nei compiti non automatizzati. E penso anche all’effetto creazione di nuovi compiti e nuove attività in cui il lavoro gode di un vantaggio comparato rispetto alle macchine.
Ma perché è così difficile avere ragione, oggi, della disoccupazione e soprattutto della inoccupazione?
Ritengo che la disoccupazione e la cattiva occupazione di oggi siano la conseguenza di una organizzazione sociale incapace di articolarsi nel modo più adatto a valorizzare le risorse umane a disposizione. È un fatto che le tecnologie della quarta rivoluzione industriale liberano tempo sociale dal processo produttivo, un tempo che l’attuale assetto istituzionale del lavoro trasforma in disoccupazione oppure in precarietà sistemica. Vale a dire che l’aumento, a livello del sistema economico, della disponibilità di tempo continua ad essere utilizzato per la produzione di merci o di servizi di cui potremmo tranquillamente fare a meno e che dobbiamo poi consumare. Il risultato di questo stato di cose è che troppi sforzi ideativi vengono indirizzati su tentativi di creare nuove occasioni di lavoro effimere o precarie anziché essere impiegati per riprogettare la vita di una società postindustriale capace di lasciare alle nuove macchine le mansioni ripetitive e quindi potenzialmente capace di utilizzare il tempo così liberato per impieghi che allarghino gli spazi di libertà dei cittadini. Una precisazione è opportuna. La disoccupazione dice di una carenza di posti di lavoro, cioè di impieghi, sul mercato del lavoro. Ma vi sono parecchie altre offerte e domande di lavoro che non transitano per il mercato del lavoro. Si pensi al lavoro di cura dentro e fuori della famiglia; al lavoro che entra nella produzione di servizi alla persona; al lavoro erogato all’interno delle organizzazioni di terzo settore e simili. Si tratta di attività lavorative che la società avvalora, senza però che esse siano sottoposte alle regole del mercato del lavoro. È dunque necessario tenere distinta la nozione di impiego o posto di lavoro dalla nozione, assai più ampia, di attività lavorativa. E il confine tra la sfera dell’impiego e quella delle attività lavorative è oggi sostanzialmente lo stesso di quello in essere durante la lunga fase di sviluppo della società fordista. È questa la vera rigidità che occorre superare, e in fretta, se si vuole avviare a soluzione il problema qui in questione. Pensare di dare oggi un lavoro a tutti sotto forma di impiego, cioè di posto di lavoro salariato, sarebbe pura utopia o, peggio, pericolosa menzogna. Infatti, mentre nella società industriale, l’espansione dei consumi e la lentezza del progresso tecnico permettevano al mercato del lavoro sia di assorbire la nuova manodopera sia di riassorbire la vecchia manodopera resa esuberante, dall’utilizzo delle “macchine”, nella società postindustriale questi margini di intervento sono praticamente negati. Ecco perché occorre intervenire sul confine di cui si è appena detto.
Ma delle politiche di riduzione del costo del lavoro unitamente a politiche di sostegno e di rilancio della domanda aggregata potrebbero accrescere la produzione più rapidamente dell’aumento della produttività e contribuire così alla riduzione della disoccupazione?
Certamente, ma un tale risultato positivo avrebbe un prezzo. Ovvero quello di accettare come naturale una nuova classe sociale, quella dei working poors, ovvero dei poveri che lavorano, soggetti cioè che percepiscono un reddito da lavoro, ma questo si colloca al di sotto della soglia di decenza. Oggi sappiamo che è la competitività l’orizzonte sotto il quale impostare qualsiasi discorso volto a creare posti di lavoro. Solamente imprese competitive possono nascere e crescere e così facendo possono creare impiego: i posti di lavoro aumentano con l’aumento dei margini di competitività delle imprese. È questa la nuova regola aurea dell’occupazione. Si tratta di una novità di non poco conto rispetto al più recente passato. E il senso di tutto questo è chiaro: è il lavoro manuale o ripetitivo e quello che non richiede scambio con l’utenza che andrà ad essere sempre più sostituito dalle nuove macchine; mentre si salverà quel lavoro manuale o intellettuale che non può essere fungibile, come accade nei servizi alle persone, oppure che postula particolari strutture di relazione con la controparte. In buona sostanza, knowledge economy e creator economy continueranno a rafforzarsi a spese dei vecchi colletti blu e bianchi.
Ma perché ci sono resistenze così forti a prendere atto che l’attuale disoccupazione è essenzialmente legata al mutamento profondo intervenuto nell’organizzazione della produzione?
La risposta che trovo più convincente è che ancora diffusa tra gli esperti è l’idea che si possa intervenire con successo sulla disoccupazione operando con rimedi tradizionali. Ma non è così. Occorre allora mutare lo sguardo sulla realtà. Il fatto è che, rimanendo all’interno dello schema concettuale che identifica la piena occupazione con il pieno impiego, il raggiungimento di quest’ultimo obiettivo entra in rotta di collisione con il raggiungimento di obiettivi altrettanto leciti e importanti, quali una crescita ecologicamente sostenibile, o un modello di consumo che non generi alienazione distorcendo le preferenze individuali, o una società non stratificata e tendenzialmente includente. Per dirla in altri termini, il limite invalicabile di tutte le proposte, anche ingegnose, volte ad alleviare la piaga della disoccupazione è quello di generare, nelle nostre società, pericolosi trade-offs: per distribuire lavoro a tutti si va a giustificare un modello di consumo neoconsumista, oppure si legittimano le nuove di povertà, oppure ancora si restringono gli spazi di libertà dei cittadini. Tutto ciò è inaccettabile sotto il profilo sia etico sia politico. Quel che occorre dire, in tutti i modi immaginabili e possibili, è che il fare impresa è la via maestra per creare lavoro. Perché il lavoro va creato. Non ci si può accontentare di ridistribuire quello che già c’è.
In una regione come l’Emilia-Romagna che dinamiche si stanno registrando?
È appena uscito un libro da me curato che fa il punto su questo. Si intitola Creazione di lavoro nella stagione della quarta rivoluzione industriale. Il caso dell’Emilia-Romagna (Il Mulino, 2018). È il frutto dell’impegno congiunto di un gruppo di studiosi che, riuniti dall’Istituto Veritatis Splendor di Bologna, hanno inteso dedicare la propria attenzione alla grande questione del lavoro. L’occasione che ha propiziato questa ricerca è stata il varo, nel giugno 2017, del progetto «Insieme per il lavoro» che ha visto il coinvolgimento attivo della Chiesa di Bologna, del Comune di Bologna, delle associazioni imprenditoriali, del sindacato e di talune espressioni del Terzo settore. È questo un tentativo ben riuscito che dimostra come sia concretamente possibile, quando lo si vuole, dare ali a quel principio di sussidiarietà circolare, cui fa esplicito riferimento l’art. 118 della nostra Costituzione. L’Emilia-Romagna è una delle regioni più ricche d’Europa. E alla ricchezza in termini economici si aggiunge una ricchezza intellettuale. Qui, forse più che altrove, si è compreso che l’impresa che crea lavoro non è solo quella privata di tipo capitalistico ma anche l’impresa sociale, il cui principio regolativo è la reciprocità. Ciò è possibile ad una fondamentale condizione: che si realizzi il travaso della domanda verso categorie di beni come quelli comuni e quelli relazionali. Come sempre più spesso si sente affermare, alla base del nuovo modello di crescita c’è una specifica domanda di qualità della vita. Ma la domanda di qualità va ben al di là di una mera domanda di beni manifatturieri o agricoli. È piuttosto una domanda di attenzione, di cura, di servizio, di partecipazione, in buona sostanza, di relazionalità. In altri termini, la qualità cui si fa riferimento non è tanto quella dei prodotti di consumo, quanto piuttosto la qualità delle relazioni umane. Recuperare le tradizioni ideali e i principi fondativi della matrice culturale del territorio emiliano-romagnolo è allora la via per vincere la sfida: dalla laboriosità allo spirito di sacrificio, dalla passione per l’etica dell’agire alla coesione sociale, dalla creatività alla solidarietà vissuta e non solamente declamata. Tenendo sempre a mente che, come ricordava Gustav Mahler, la tradizione è la salvaguardia del fuoco, non la conservazione delle ceneri.
*Clionet, 4 giugno 2019