Le due Gorizia, in ipostatica unione tra nuovo e vecchio mondo, rappresentano in un relativamente angusto territorio, le questioni fondamentali che in questo particolare momento, sembrano essere sul punto di sconquassare l’assetto ordinario dell’Europa e del Mondo. Come le confluenze dei fiumi congiungono le acque fondendole in un lento abbraccio, così le zone di confine sono speciali in quanto, fondendo senza confondere gli elementi distinti di differenti culture, sperimentano una permanente e mai del tutto realizzata tensione all’obiettivo dell’unione nella valorizzazione della ricchezza delle diversità.
Non soltanto il confine tra Slovenija e Italia è stato chiuso, ma la divisione tra le persone che vivono da una parte e dall’altra non è mai stata così evidente da 70 anni, dai tempi cioè della Domenica delle Scope, il 13 agosto 1950, data simbolica che aveva segnato l’inizio del riavvicinamento con l’allora Jugoslavija. Sono stati chiusi quasi tutti i valichi, è stata realizzata in brevissimo tempo una rete per impedire il passaggio a chiunque, le norme dei due Stati hanno reso molto complesso il transito, compreso quello ciclo pedonale.
Il motivo di tutto ciò è molto chiaro, si tratta del contenimento del contagio del coronavirus. Meno chiara è la misura del tempo in cui sarà necessario continuare a vivere sullo stesso territorio con in mezzo un’invalicabile barriera, ciò vale in particolare per tutti Comuni del Carso, delle Prealpi e Alpi Giulie, delle valli dell’Isonzo e del Vipacco. Per centinaia di persone che hanno contratti di lavoro transfrontalieri è scattata l’ora del blocco totale, i legami affettivi sono ridotti alle possibilità offerte soltanto dagli spazi virtuali, interi settori produttivi sono in ginocchio. Certo, è solo un aspetto di una crisi molto più vasta che investe l’Europa e il mondo intero. Tuttavia ciò che sta accadendo a Gorizia e Nova Gorica porta con se un valore simbolico di non poco conto.
La Piazza della Transalpina/Trg Evrope è stata, nella notte tra il 30 aprile e il 1 maggio del 2004 il teatro di un avvenimento di enorme rilevanza: con l’ingresso della Slovenija nell’Unione Europea, celebrato dalle massime autorità e nobilitato da uno straordinario concerto di Goran Bregovič la grande Storia che tanto sangue aveva visto versare in queste terre, tornava finalmente protagonista con un meraviglioso evento di pace. Il 21 dicembre 2007 tutti i goriziani, della “Nova” e della “Stara” Gorizia, correvano felici facendo una specie di slalom tra i valichi ormai privi di sbarre, subito dopo l’ingresso della stessa Slovenija tra i Paesi del Trattato di Schengen. Era un sogno finalmente realizzato, dopo decenni di attese e speranze, rese sempre più concrete non soltanto ma anche dall’intenso lavoro di tante persone, soprattutto appartenenti ai mondi goriziani del cattolicesimo sociale e della sinistra culturale.
Insieme alla delusione derivata dal vedere nuovamente innalzate frontiere che si ritenevano per sempre abbattute, sorgono molti interrogativi: il coronavirus giustifica il ripristino delle barriere? Se sì, quanto tempo durerà questa situazione? E’ giusto che realtà come la Primorska slovena e il Friuli-Venezia Giulia siano così fortemente penalizzate, tenendo conto del relativamente contenuto numero di contagi da Covid-19 che hanno caratterizzato questo territorio?
Alla prima domanda, da un punto di vista politico, si può rispondere senza dubbio di no. No, perché la logica dell’Unione Europea avrebbe dovuto trovare piena manifestazione proprio in questo difficile e delicato periodo. Quella contro il virus non è una guerra, non ci sono eserciti che si fronteggiano, ma un’intera umanità che dovrebbe affrontare insieme un nanomicroscopico “nemico” che si stenta perfino ad annoverare tra gli esseri “viventi”. Chi lo combatte in prima linea rischia la vita non per uccidere, ma per salvare e le armi utilizzate dovrebbero essere il frutto della convergenza delle più illuminate intelligenze e volontà.
Per questo la “nazionalizzazione” del problema, con un’anacronistica retorica patriottica che ha portato ogni Paese, soprattutto l’Italia, a sentire gli “altri” come antagonisti, non è stata e non è soltanto grottesca, ma anche dannosa. Non si combatte un virus rinchiudendosi nei recinti dei propri Stati, ma costituendo – con gli strumenti a disposizione – comunità planetarie di scienziati, creando continui legami politici, economici, sociali tra le Nazioni, favorendo la conoscenza reciproca di lingue e culture. L’istituzione delle barriere e dei controlli sul confine sottolinea impietosamente il fallimento della collaborazione tra due Stati appartenenti alla medesima Unione, incapaci di condividere protocolli di controllo, di contenimento e di cura della malattia.
La seconda questione è quanto tempo durerà questa situazione. Purtroppo non è lecito farsi troppe illusioni, il confine ripristinato non sarà smantellato in breve tempo e il passaggio da una parte all’altra implicherà controlli di ogni tipo e soprattutto l’obbligo della quarantena per tutti, eccetto per chi è soltanto in transito o per chi passa il confine per motivi di lavoro transfrontaliero. Mentre occorre insistere perché si creino quanto prima le condizioni non per “tornare alla normalità”, ma per portare molto più avanti un cammino già da tempo avviato, è lecito chiedere un trattamento speciale per un territorio che in tutto il corso dell’ultimo millennio – con drammatici momenti di verifica – si è pensato unito nelle sue diversità?
La proposta che qualcuno ha abbozzato di ripristinare la mitica “propustnica” ha ovviamente un valore del tutto emblematico. In tempi di contrasto politico ben più accesi di quello attuale, il “lasciapassare” fu una risposta intelligente ed efficace alle esigenze di incontro e relazione reciproca tra le genti che vivevano a ridosso del confine italo-jugoslavo. E’ chiaro che non si propone di riesumare un documento che fa parte dell’archeologia sociale, ma solo evocarlo significa invitare a una riflessione costruttiva i responsabili di tutti i settori della vita sociale dei Comuni prossimi al confine.
Due sono allora le proposte da portare avanti con decisione, in una terra relativamente risparmiata dalla forza del coronavirus. La prima è che tra i Comuni appartenenti al GECT/EZTS (Gruppo Europeo di Collaborazione Transfrontaliera), Gorizia, Nova Gorica e Šempeter/Vrtojba siano immediatamenti aperti almeno i varchi ciclo pedonali per ripristinare da subito quei continui legami umani, sociali e culturali la cui intensificazione potrebbe e dovrebbe sostenere la candidatura di Nova Gorica e zona limitrofa a “Capitale Europea della Cultura 2025”).
La seconda è che sia consentita da subito la “ripartenza” dell’intera area di confine, creando un “punto franco internazionale” in grado di favorire l’integrazione politica, economica e socio-culturale tra il Friuli-Venezia Giulia e la Primorska (Litorale sloveno, da Bovec a Koper e da Nova Gorica a Postojna), senza dimenticare l’Istria croata e la Carinzia austriaca. In tutta questa zona gli abitanti dovrebbero circolare liberamente, grazie appunto a un permesso speciale al quale si potrà dare qualsiasi nome, in attesa che l’incubo del coronavirus svanisca dal cuore e dalla mente dei popoli di tutto il mondo. Un Pianeta che sarebbe bello vedere del tutto “nuovo”, non più diviso tra pochi straricchi e moltitudini di strapoveri, non più preoccupato di salvaguardare gli interessi del capitale gettando letteralmente a mare o rinchiudendo nei campi di concentramento coloro che cercano di fuggire da fame e miseria, ma divenuto ciò che avrebbe sempre dovuto essere, la “casa comune” di tutti gli umani, rispettosi di tutti gli esseri viventi e preoccupati di amare e onorare la terra madre di tutti noi.