Profili in ambito digital, ma anche professionisti sanitari o “antichi mestieri” come il sarto o l’operaio specializzato: la lista delle figure introvabili si allunga ogni giorno di più, le cronache che raccontano le difficoltà delle aziende in questo senso e le fotografie che arrivano dalla ricerca non mancano di mettere in luce quanto profondo sia il problema con cui fanno i conti imprese di ogni classe dimensionale e settore.
Alla questione numerica – destinata ad acuirsi considerato il trend demografico in atto – si affiancano altri nodi forse meno lampanti, ben evidenziati dai dati presentati da Silvia Oliva, ricercatrice senior della Fondazione Nordest, durante uno degli incontri di Attraction & Retention Hub, laboratorio di discussione fra manager, ma non solo, promosso da Niuko Innovation & Knowledge, società di formazione di Confindustria Vicenza. Circa il 35% degli occupati – è l’analisi della Fondazione Nord Est su dati Miur – ha un titolo di studio più elevato rispetto a quello richiesto dal proprio lavoro, il 30% svolge un impiego in cui sono richieste competenze completamente diverse rispetto a quelle acquisite con il titolo di studio, mentre tra il 2023 e il 2027 mancheranno in Italia il 40% dei profili tecnici richiesti. Indicatori che “stridono” con il dato che fotografa la crescita dei Neet – i giovani fra i 18 e i 29 anni che non studiano e non lavorano – arrivati a quota 14% del totale in Veneto, al 15% in Trentino Alto-Adige ed Emilia Romagna e al 16% in Friuli Venezia-Giulia.
Uno scenario che interpella le aziende, che si trovano e si troveranno a misurarsi sempre più in futuro con la difficoltà di attrarre lavoratori, ma anche con la sfida di trattenerli dovendo fare i conti con una “competizione” sempre più forte e con una forte mobilità dei lavoratori.
Nel corso del 2021, nell’ambito del progetto strategico Fondirigenti Cross Generation Learning: le condizioni organizzative e formative per un apprendimento efficace – promosso da Federmanager Vicenza e Confindustria Vicenza – Niuko ha realizzato un’indagine quantitativa (su un campione di 150 aziende vicentine) e qualitativa che ha indagato l’apprendimento intergenerazionale in azienda intercettando anche i temi collegati dell’attraction e della retention (vai all’ebook che raccoglie i risultati)
«Le imprese che hanno raggiunto i migliori risultati in termini di fidelizzazione dei giovani – spiega Salvatore Garbellano, docente a contratto di Modelli organizzativi e hrm al Politecnico di Torino e responsabile scientifico del progetto strategico – sono quelle che hanno investito nella formazione continua e sono riuscite a conciliare aspetti che possono sembrare in contraddizione: creare spazi di autonomia e allo stesso tempo fornire loro supporto; fornire strumenti di lavoro e di collaborazione digitali, ma allo stesso tempo creare occasioni per incontri spesso informali come accade ad esempio nelle pause caffé, da cui possono nascere nuove idee e soluzioni. In una società in movimento caratterizzata da rapide accelerazioni e rallentamenti causati da eventi imprevisti e talvolta imprevedibili, la capacità delle imprese di attrarre e fidelizzare i giovani si gioca sulla capacità del management di gestire situazioni apparentemente contrarie e contrastanti».
In questa sfida la dimensione dell’ascolto dei collaboratori appare centrale. «Nelle esperienze che abbiamo raccolto – aggiunge Fabio Pierobon, specialist Niuko Sviluppo Organizzativo – ho trovato spesso un ascolto organizzato con metodo: ci sono ad esempio imprese che gestiscono ogni anno centinaia di colloqui di almeno un’ora a favore di tutta la popolazione aziendale o che si dotano di tecnologie di ascolto “continuo” basato sull’intelligenza artificiale e su app che rappresentano un’alternativa più immediata alle classiche analisi di clima periodiche. In alcuni casi l’ascolto si estende alla fase di uscita dei collaboratori: questionari anche semplici o colloqui mirati che offrono qualche dato di realtà e qualche occasione di apprendimento sull’esperienza vissuta dal collaboratore».
Sia verso i propri collaboratori, sia verso il territorio e il mercato del lavoro su cui “si affacciano” alla ricerca di “nuove leve”, le aziende sembrano insomma chiamate a diventare più empatiche: «Fare l’impresa dell’empatia – è la conclusione tracciata da Pierobon – sembra essere un mindset e un impegno che si declinano in modi diversissimi, forse accomunati dalla propensione ad “esporsi” e ad assumersi la responsabilità di costruire e sperimentare nuovi tessuti di azione, relazione, significato. In un lavoro che, ancor più che della gentilezza e del benessere, ha il sapore di una parola importante: la cura».