Non c’è Donald Trump che tenga. La politica revisionista sui temi ambientali ed energetici del tycoon che si è fatto presidente (due volte) degli Stati Uniti può aver fatto presa sulle grandi banche americane e sui fondi di investimento. Così come sui grandi studi legali. Che sperano di continuare a fare affari come egli ultimi decenni con le compagnie oil&gas. Ma non ha fermato la transizione. Perché gli investimenti nel mondo per rinnovabili, batterie, auto elettriche, idrogeno e tutte le tecnologie per la decarbonizzazione proseguono senza sosta.
Basta prendere l’ultima analisi di BloombergNef (New energy finance), società di ricerca specializzata su tutto ciò che si muove attorno alla transizione. Gli investimenti complessivi dell’economia green hanno raggiunto nel 2024 la cifra di 2.100 miliardi di dollari. Un valore doppio rispetto a quanto confluisce nell’economia dei combustibili fossili.
È tanto, ed è una cifra in continua crescita. Ma non è abbastanza con l’obiettivo della neutralità carbonica alla metà del secolo: occorre un investimento quasi tre volte maggiore: 5.600 miliardi di dollari l’anno fino al 2030. Le sorprese non finiscono qui. Se spacchettiamo il dato degli investimenti complessivi del 2024 in grandi macroaree, scopriamo che il settore più attrattivo si conferma quello della mobilità elettrica, con 747 miliardi. Nonostante la crisi dell’auto elettrica in Europa, con il crollo delle vendite guidato dal mercato tedesco. Ma il dato controintuitivo si spiega con il boom dell’automotive cinese, la cui crescita anche a livello di esportazioni non viene intaccata nemmeno dai dazi che si sono moltiplicati nell’ultimo anno in tutto il mondo occidentale.
Le auto cinesi piacciono esteticamente, ma soprattutto hanno dalla loro il prezzo nettamente più basso rispetto ai rivali, dai marchi europei a quelli americani, dai giapponesi e ai coreani. La risposta all’invasione dei modelli di Pechino, però, non sembra essere l’arrocco in difesa della filiera dell’auto a motore endotermico. Non può essere sia per motivi ambientali, se si vuole invertire la tendenza che porta le temperature medie aumentare anno dopo anno nel mondo. Ma anche per motivi industriali, se si vuole veramente costruire una filiera europea dell’auto elettrica.
La Commissione Ue ha fatto chiaramente capire che è disponibile a concedere più tempo alle case automobilistiche per prepararsi alla transizione, rinviando il momento dei controlli e delle multe per chi non comincerà a ridurre le emissioni delle sue quattro ruote. Ma indietro non si torna e la data ultima per la produzione dell’ultimo modello a benzina o diesel rimane il 2035.
E il fronte dei produttori comincia a mostrare le prime crepe nel blocco compatto che negli ultimi mesi – di fronte al calo delle vendite – ha contestato le scelte di Bruxelles giudicate troppo estreme. È il caso di Audi: potrebbe fermare lo sviluppo e l’avvio di nuovoimodelli di vetture con motore a combustione già a partire dal 2026. Per arrivare a proporre pochi anni dopo solo auto elettriche.
Ma tutto fa pensare che il suo esempio verrà seguito da altri. Come la francese Renault, il cui amministratore delegato Luca De Meo (già braccio destro di Sergio Marchionne) va controcorrente rispetto a molti dei manager del settore. A suo dire, le regole di Bruxelles per anni hanno protetto le case tedesche “che hanno guadagnato con le vetture più potenti”, mentre è venuto il momento “di favorire le auto più piccole”. Per cui, seguendo il suo ragionamento, la soluzione per inquinare di meno è la sostituzione del parco auto più vecchio. Che è anche il modo per le case automobilistiche di tornare a vendere.
Peccato che “il ceto medio si sia impoverito e non abbia i soldi per cambiare macchina”, sostiene ancora di Meo. O, come molti giovani che abitano nelle aree metropolitane, non è più interessato a un auto di proprietà. Quando serve l’affitta, o viaggia in treno. Perché preferisce spendere quanto guadagna in altri modi.
Subito dopo la mobilità elettrica, i maggiori investimenti del 2024 sono andati alle energie rinnovabili con 728 miliardi. Mentre gli investimenti destinati a rendere più efficiente l’infrastruttura della rete elettrica sono arrivati a 390 miliardi. È la riprova che i grandi finanziatori, che siano fondi o società del settore considerano queste tecnologie ormai come mature, in buona parte anche senza il supporto di incentivi pubblici.
Cifre nettamente inferiori sono invece andate a quelle tecnologie che stanno facendo fatica a imporsi. Il riscaldamento elettrico non riesce a scalzare la prevalenza delle caldaie a gas, nonostante sistemi come le pompe di calore siano sempre più accessibili anche a chi abita in condominio. Allo stesso modo l’idrogeno per la decarbonizzazione del trasporto navale ed aereo, la cattura e lo stoccaggio della CO2 e il nucleare si scontrano con le incertezze politiche, i dubbi sulle scelte tecnologiche e soprattutto su un livello di costi che non sarebbe accessibile ai privati senza un adeguato livello di incentivi. Non per nulla, nel corso dell’ultimo anni gli investimenti in questo comparti sono scesi dei 23 per cento a 550 miliardi di dollari.
Il quadro complessivo dello stato di salute della transizione energetica non può essere completo senza ricordare il ruolo sempre più dominante delle economie asiatiche. In particolare della Cina, che è ormai prossima a superare il miliardo di dollari investito nell’arco di dodici mesi. L’anno scorso sono stati 818, in crescita del 20 per cento. Da sola la Cina investe più di quanto non fanno insieme Stati Uniti (338 miliardi, stabile rispetto all’anno precedente), Europa (381 miliardi, in calo) e Regno Unito (65 miliardi, anch’esso in calo).
La Cina è in testa per livelli produttivi in tutte le principali tecnologie mature, dai pannelli solari alle pale eoliche, nelle batterie e ora anche negli elettrolizzatori per la produzione di idrogeno. Ma la Cina gioca su due tavoli. Pechino è il più grande consumatore di carbone al mondo, con numeri ancora in crescita nell’apertura di nuove centrali a carbone. Gli impianti che consumano fossili hanno così raggiunto 1.200 GW di potenza installata, equivalente a tutte le rinnovabili messe insieme. Secondo un’analisi, le emissioni del settore energetico e cementizio della Cina sono rimaste stabili da febbraio 2024 (le più alte al mondo su base annuale).
E l’Italia? Quanto accade nel nostro Paese va inserito nel contesto di quanto accade nel resto del mondo e in Europa. Perché come ha sentenziato la Corte Costituzionale accogliendo il ricorso del governo contro la legge della Regione Sardegna sulle Aree idonee, l’Italia ha l’obbligo di raggiungere gli obiettivi al 2030 e al 2050 decisi dall’Unione europea. Perché ha preso un impegno a Bruxelles e così vogliono le regole sulla gerarchia delle fonti.
Così, dopo una prima stagione in cui il governo Meloni ha dato soddisfazioni ad alcune lobby (in particolare degli agricoltori) e alle proteste locali contro l’installazione delle rinnovabili, ora ha aperto una nuova stagione aperta alle tecnologie della transizione. Dagli incentivi per le rinnovabili tecnologicamente non ancora mature e con la prima asta per batterie e sistemi di accumulo che si terrà a settembre. O sostenendo progetti per nuove interconnessioni elettriche con i paesi confinanti o per portare idrogeno green dall’Africa.
Il resto verrà anche dalla messa a terra dei progetti del Pnnr, visto che i fondi sono in buona parte destinati alla transizione. Ci sarà poi da capire se porteranno effettivamente a una riduzione delle emissioni della CO2 o quanti sono stati approvati in tutta fretta pur di non perdere i fondi europei anche se non proprio fondamentali per la lotta al cambiamento climatico.
Ma una cosa è certa: l’Italia rimane indietro nella crescita delle rinnovabili rispetto Paesi come Germanie e Spagna e la quota di auto elettriche è tra le più basse della Ue. Inoltre, per la decarbonizzazione della produzione elettrica e per abbassare alle bollette il governo vorrebbe una nuova stagione di centrali nucleari. Ma la tecnologia individuata, quella degli small modular reactor non vedrà una sua prima applicazione industriale ad andare bene fra 6-7 anni. E nel frattempo?