Sono momenti delicati anche per le imprese Champions. Perché il vantaggio che hanno accumulato in questi anni, se da una parte permette loro di porsi come l’avanguardia della rinascita, dall’altra implica che queste aziende non possono permettersi di fare errori di strategia che possano pregiudicare il loro futuro. Se sbagliano a intuire i tempi della ripresa, a organizzare la loro presenza nei mercati globali, o i bisogni diversi che emergeranno dai loro vecchi clienti e da quelli nuovi, potrebbero bruciare il terreno guadagnato in questi anni.
Che siano queste imprese le candidate naturali a guidare la ripresa è evidente. In questi anni, anziché distribuirsi ricchi dividendi e pagarsi compensi da amministratore milionari, questi imprenditori hanno sistematicamente scelto di investire tutto nella propria impresa. E chi è patrimonializzato parte ovviamente avvantaggiato, sia perché ha più «cassa» per resistere, sia perché ha maggiori disponibilità per innovare e acquisire le aziende che andranno in difficoltà.
I fronti caldi
Non sarà comunque facile nemmeno per tutte le eccellenze sopravvivere a questa crisi. Nel sondaggio che abbiamo svolto un mese fa in collaborazione con auxiell e Delivera, abbiamo potuto vedere che tra le imprese che sono rimaste chiuse, magari con i concorrenti esteri aperti che nel frattempo hanno rubato loro i clienti, più di qualcuna, nonostante la solidità patrimoniale che le contraddistingue, potrebbe non farcela.
E allora bisogna guardare alla nuova situazione che si è venuta a determinare. Una crisi di queste dimensioni non è un’interruzione dovuta ad un incidente stradale per cui, liberata la carreggiata dai poveri sfortunati veicoli coinvolti, si riprende a correre come, e magari più di prima. Una crisi del genere cambia «la domanda» sia in termini quantitativi che qualitativi. Un po’ come è stato nel «dopo Greta» sul tema della sostenibilità, ma per usare uno slogan di una efficace campagna pubblicitaria «più in grande». Ci sono quindi tre questioni chiave che queste imprese dovranno affrontare.
La prima è se la ripresa sarà a V o a U. Bisogna cioè capire se è necessario attrezzarsi per essere in grado di rispondere velocemente a una rapida ripartenza del mercato o ragionare su tempi lunghi. Nessuno oggi ha la risposta e quindi bisognerà cercare di leggere i segnali che arriveranno dal mercato. Bisogna cioè guardare ai movimenti di Germania, India, Cina e Stati Uniti e cercare di scorgere segnali di come sarà la ripresa in quei Paesi piuttosto che guardare all’Italia, dove, pare evidente, la ripresa sarà, se va bene, come nel 2008, a U.
L’economista Francesco Daveri su lavoce.info, riflettendo sui dati del Fondo monetario internazionale, parla, nello scenario più ottimistico, di una ripresa a V, ma con la fondamentale differenza che la caduta del 2020 comporterà comunque un rimanere sotto i livelli di crescita che ci sarebbero stati senza il coronavirus per almeno quattro mila miliardi di dollari, l’equivalente del Pil della Germania o di Brasile ed Italia messi assieme.
La seconda questione è se il futuro sarà global o no global, se cioè, come sostengono alcuni, l’epoca della globalizzazione è finita. Su questo concordo con quanto scritto recentemente da un altro economista esperto di distretti industriali, Enzo Rullani, secondo cui c’è da dubitare che, una volta riaperta la circolazione delle persone e delle imprese, il disegno di de-globalizzare il mondo in nome della riduzione dell’incertezza e degli interessi nazionali riesca davvero a decollare. «Nonostante le molte profezie al riguardo – ha scritto Rullani – la globalizzazione non è destinata ad irreversibile declino, ma è piuttosto in evoluzione».
La rivoluzione digitale, infatti, permette alle imprese di superare la barriera della distanza fisica ed è destinata a propagare le competenze utili e a rafforzare la divisione del lavoro tra i luoghi, tra le aziende e tra le persone. La connessione in rete, cioè, consente di allacciare rapporti con fornitori e clienti nuovi, situati nel grande mercato mondiale, creando gli embrioni di nuove filiere, sempre più estese, diversificate, flessibili.
La terza questione riguarda se torneremo alle abitudini precedenti la crisi (quello che viene chiamato normal) o se andremo verso stili di consumo che assorbiranno l’idea del distanziamento sociale (new normal).
Su questo fronte la tendenza prevalente in Italia, forse perché assieme alla Spagna siamo stati il Paese reso psicologicamente più fragile di fronte a questa crisi, è quello di immaginare prodotti e servizi dove il cosiddetto new normal la fa da padrone. Andremo in spiaggia chiudendoci all’interno di quelle orribili celle di plexigas che abbiamo visto in alcune foto nei giorni scorsi? Non credo. La natura sociale dell’uomo, pur con molte cautele iniziali, tenderà a mio avviso a prevalere nel medio lungo periodo.
Incertezza e consumi
Il problema vero sarà semmai che più che il distanziamento sociale, sarà la crisi economica a dettare gli stili di consumo. Per il made in Italy che ha puntato tutto sulla qualità non è questione da poco, perché è ai ricchi del mondo che abbiamo venduto i nostri prodotti. Cosa accadrà nei Paesi i cui introiti dipendevano dal petrolio, che ora è a livelli negativi record? Che ne sarà dell’industria automobilistica tedesca di alta gamma che trainava il nostro manifatturiero? Quanto crescerà la Cina in un contesto globale così difficile?
Per un made in Italy che sviluppava margini su qualità e personalizzazione del servizio, una crisi economica prolungata potrebbe essere un fattore di difficoltà non da poco. A meno che, data l’altra caratteristica che contraddistingue le imprese Champion, e cioè la flessibilità, queste non siano capaci di stupirci ancora una volta, e facendo magari leva sulla robusta dose di 4.0 accumulata nei tre anni precedenti, non riescano a vincere sfide competitive, ad oggi inimmaginabili, anche sui prezzi. Ma per questo, e non solo per questo, servirà che il sistema Paese alleggerisca rapidamente i costi che gravano sul mercato del lavoro e quelli legati alla burocrazia. Che le imprese Champion ce la possano fare ne siamo certi, ma questa volta non senza un radicale cambiamento del sistema Paese.