In queste settimane ho la fortuna di fare interessanti incontri con vari ruoli in ambito HR in aziende manifatturiere del territorio, nei quali accade di parlare di temi come l’attraction e la retention. Queste chiacchierate mi stanno lasciando qualche impressione (molto soggettiva) che sto collegando in base alla ricorsività di temi, racconti e situazioni.
Una prima impressione è che gli ultimi anni abbiano richiesto alle imprese di diventare organizzazioni (più) empatiche. A partire dal mercato del lavoro e dal territorio: il modo in cui viene percepita l’azienda influenza sempre di più la possibilità di “farsi scegliere” dai lavoratori, in particolare se giovani e portatori di competenze sofisticate. E’ un impegno quindi sempre più sistematico per le Risorse umane quello di abbinare al megafono (dei social media e di altre iniziative di employer branding svolte anche incontrando Scuola e Università) lo stetoscopio della comprensione del “riverbero reputazionale” di quanto l’impresa fa (o non fa) verso i collaboratori, l’ambiente, gli stakeholders.
Un secondo ambito di attenzione riguarda i collaboratori: ho trovato spesso un ascolto organizzato con metodo: ad esempio imprese che gestiscono ogni anno centinaia di colloqui (di almeno un’ora) a favore di tutta la popolazione aziendale o che si dotano di tecnologie di ascolto “continuo” basato sull’intelligenza artificiale e su app che rappresentano un’alternativa più immediata alle classiche analisi di clima periodiche. In alcuni casi l’ascolto si estende alla fase di uscita dei collaboratori: questionari anche semplici o colloqui mirati sono al servizio di un processo di apprendimento che può essere insidiato da molte distorsioni, ma che offre qualche dato di realtà e qualche occasione di apprendimento sull’esperienza vissuta dal collaboratore.
Ho trovato impegno organizzativo improntato all’empatia anche nella risposta alle esigenze di chi vive l’organizzazione: la costruzione di una “offerta di valore” (mix di benefici economici e non monetari come certe forme di welfare o la conciliazione vita-lavoro) che viene modulata per specifiche fasce di collaboratori, team, singole persone. Ho visto progetti collegati al benessere organizzativo ed anche psicologico che al di là dell’estemporaneità di certe iniziative possono contribuire ad influenzare positivamente il clima.
Non è opportuno generalizzare, ma mi pare di vedere alcuni cambiamenti significativi nella funzione HR, che in tempi di perdita di collaboratori chiave e di relativo know-how, di irreperibilità di competenze e di situazioni di malessere organizzativo, vede innanzitutto aumentare il riconoscimento del proprio impatto sulla competitività dell’impresa. Una funzione organizzativa riconosciuta dagli azionisti anche per la crescente apertura al territorio (non solo virtuale), dato il collegamento con il mondo della scuola, dell’Università e della formazione e con il pilastro “Sociale” della Sostenibilità, che spesso genera progetti che escono dal perimetro della “fabbrica”.
Ma chi fa concretamente tutte queste cose? L’impresa dell’empatia è l’impegno caparbio, in primis della famiglia professionale HR nello sviluppare rapidamente iniziative, apprendimento, efficacia nelle attività che ho descritto.
Ho visto occhi stanchi: per tanti mesi dal 2020 la sfida principale è stata, insieme ai lavoratori, quella di “far accadere” il lavoro, poi di orchestrarlo in modo ibrido. Occhi stanchi ma spesso sguardi vivaci di chi ha saputo affiancare ad una dimensione “procedurale” del proprio mestiere uno sforzo creativo, in un problem solving svolto su terreni nuovi che si è basato su un apprendimento per prove ed errori. Dai dialoghi con queste persone emerge che sono consapevoli di non lavorare nel “mulino bianco”, di confrontarsi talvolta con elementi di ambiguità e incoerenza nel decidere e nell’agire organizzativo, ad esempio con la difficile composizione dell’orientamento ad una performance sempre crescente con la qualità dell’esperienza lavorativa. Sanno di dover essere attenti a gestire i costi del personale, ma cercano di valutare con una certa saggezza i costi dell’impersonale.
Fare l’impresa dell’empatia sembra essere un mindset e un impegno che si declinano in modi diversissimi, forse accomunati dalla propensione ad “esporsi” e ad assumersi la responsabilità di costruire e sperimentare nuovi tessuti di azione, relazione, significato. In un lavoro che, ancor più che della gentilezza e del benessere, ha il sapore di una parola importante: la cura.