Nel luglio scorso Zaia era politicamente morto. Da una parte si era cacciato da solo nel vicolo cieco della rivendicazione di una autonomia che, concepita nei termini con la quale l’aveva proposta, nulla era tranne che propaganda. Il Veneto, peraltro, andava sempre peggio. Fuga dei giovani, perdita di competitività rispetto a Lombardia e, soprattutto all’Emilia, isolamento dal mondo con l’Alta Velocità pronta ad arrivare prima a Canicattì che a Venezia. E poi, sul piano politico, Salvini che lo aveva stretto in una morsa, pronto ad esiliarlo a Bruxelles a occuparsi di pomodori e mozzarelle.
Ma, da agosto in poi, le cose hanno iniziato a cambiare. Salvini iniziava la sua china discendente. Questo, di per sé non invertiva la rotta, tanto che Zaia, temendo la vendetta del leader che voleva escluderlo dalla candidatura alla Presidenza della Regione, si precipitò ad urlare nelle piazze che voleva fare la rivoluzione. Uno scivolone che, al momento giusto, gli avversari non trascureranno di ricordare.
Ma è stato con la vicenda Covid che è avvenuta la svolta. Quando tutti gli altri politici sono andati nel pallone, dopo alcune incertezze ed errori iniziali che ha prontamente corretto, non ha smesso di imbroccarne una. Non ripercorriamo qui le tappe che oggi sono celebrate da tutti, inclusa la stampa internazionale, ma sottolineano solo un punto: Zaia si è imposto usando il buon senso.
Che ne farà ora di questo capitale politico accumulato che lo porta ad avere il consenso dell’80% dei veneti? Cercherà di conquistare la leadership della Lega? Vorrà essere il candidato alla presidenza del consiglio di un nuovo centrodestra?
Chi conosce bene Zaia sa e pensa che la dimensione nazionale non gli sia affatto congeniale. Anzi. Si racconta che sia stato traumatizzato dall’esperienza come ministro dell’agricoltura, tanto da confidare a qualcuno che, al tempo, aveva capito che fino alla Toscana poteva intervenire, ma da lì in giù era meglio neanche metterci le mani, tanto complicata era ed è la gestione della cosa pubblica in alcune regioni del Paese. E allora? Se non cerca una leadership nazionale, che farà? A nostro avviso gli rimangono due strade.
La prima è quella di inseguire la suggestione “autonomista” alla catalana, iniziando un percorso di sempre più acceso conflitto con lo Stato italiano, ma, a quel punto, anche con l’Unione Europea che, come il caso spagnolo insegna, privilegia il rapporto con gli Stati piuttosto che con le Regioni. Una parte del suo inner circle la pensa da anni così. Ma pur essendo i veneti accorsi in massa a votare ad un referendum all’acqua fresca, che sapevano nulla fosse più che una sorta di “protesta”, davvero lo seguirebbero nel caso dovesse organizzare manifestazioni di piazza? Abbiamo ragione di dubitarne.
L’alternativa più forte che il Presidente della Regione Veneto ha di fronte è invece quella di continuare ad essere lo Zaia che abbiamo conosciuto in questi mesi. Ma con il coraggio di fare un passo in più. E cioè, pragmaticamente, approfittare dell’enorme consenso e della credibilità nazionale conquistata, per lavorare ad un programma di rinascita del Veneto che lo riporti ai fasti di qualche decennio fa. “Make Veneto great again” potrebbe essere lo slogan.
Un piano di rilancio semplice, che punti a risolvere tre questioni fondamentali: un recupero di attrattività del territorio, soprattutto verso i giovani e i nuovi immigrati. Una operazione al servizio delle imprese utile a risolvere il problema del calo demografico che sta danneggiando pesantemente i valori immobiliari e il commercio; una campagna in stile “Berlino” negli anni della rinascita fatta di un mix tra rinascita culturale d’avanguardia e housing sociale. Una operazione per dare la possibilità a giovani coppie di acquistare a prezzi irrisori (che poi sono quelli attuali di mercato) o accedere in affitto a prezzi calmierati le abitazioni. Mirando magari ad alcune aree come, tanto per fare un esempio, quelle limitrofe alle stazioni ferroviarie di alcune città, che, pur a due passi dal centro, sono oggi a rischio degrado e che potrebbero rinascere grazie ad interventi di questo tipo.
Un secondo elemento, tanto più necessario in questa prossima fase dove le aziende di trasporto pubblico sono a rischio default, è la regionalizzazione del trasporto pubblico, concentrandolo tutto in mano ad una unica società che gestisca treni, bus, tram e che realizzi finalmente un sistema metropolitano regionale di trasporti. Questo dovrebbe accompagnarsi ad una rapida realizzazione dell’alta velocità da Verona a Venezia e al collegamento ferroviario con gli aeroporti. Connettere i due veneti, quello della pedemontana produttiva e quello delle città, dando vita a una moderna metropoli “orizzontale” della produzione, modello alternativo (e complementare) alle metropoli verticali e di servizi come Milano. Modello emiliano, per intenderci, policentrico, ma connesso.
Il terzo elemento di questo programma di rinascita dovrebbe riguardare l’attrattività delle imprese e delle multinazionali, fornendo loro quei servizi di cui hanno bisogno. Riuscire anche qui, a copiare l’Emilia Romagna, su questo sarebbe fondamentale per settori come l’automotive ma anche la farmaceutica. Ci sono aree immense, basti pensare al quartiere fieristico di Padova, che dopo questa crisi rimarranno deserte. Ne faremo un centro commerciale o chiameremo una grande multinazionale a rilanciare la declinante città del Santo?
Tre linee, dunque, affidate a tre manager esperti (e a disposizione ne ha molti, e anche fidati), da gestire con la stessa modalità e lo stesso impegno che ha impiegato in questa crisi. Tre linee che necessitano di alleanze politiche per strappare soldi a Roma. Alleanze da costruire magari proprio con quel Bonaccini, tanto simile a lui, con cui si è instaurato un feeling non casuale e che può rivelarsi utile per lavorare nel lungo periodo, a prescindere dalle maggioranze di governo nazionale che si formeranno.
Dopo che, nei suoi primi 10 anni il Veneto ha governato Zaia, forse questo è il momento nel quale Zaia può iniziare a governare il Veneto. Sempre in modo dolce, democristiano, lasciando fare ai veneti. Ma imprimendo una direzione di marcia, come quella che Bonaccini ha impresso da tempo alla sua regione, capaci di determinare le linee guida di sviluppo del Paese. Cioè quello che lui e il suo collega emiliano romagnolo hanno fatto in questi mesi.