Dovete scusarci se in questi giorni difficili ci siamo assunti il compito di sbugiardare i troppi luoghi comuni messi in circolazione dal pensiero dominante diffuso dall’inedita alleanza tra populisti e radical chic e costruito su un mix composto di paura e falso buonismo. Un mix pericoloso per le sorti del Paese e che vede allearsi personalità che, fino a 24 ore fa, mai si sarebbe immaginato potessero concordare nemmeno sulla definizione di giorno e notte. Ieri, per dirne una, il Sindaco di Bergamo Giorgio Gori, aspirante alla guida del Pd, si è schierato sulle stesse posizioni di Matteo Salvini, di Attilio Fontana e Luca Zaia, chiedendo la chiusura di ogni attività, fabbriche incluse.
Nessuno vuole sostenere che in ogni fabbrica non vadano seguite, anzi esasperate all’inverosimile, tutte le misure di sicurezza, così come, laddove possibile, vada utilizzata ogni forma immaginabile di smart working. Ma sostenere che le fabbriche vanno chiuse è una sciocchezza che soltanto chi specula a fini elettorali può candidamente sostenere.
“Le fabbriche non si accendono e si spengono con un click”, ha efficacemente spiegato ieri il Presidente degli industriali Veneti Enrico Carraro. Ma per sapere che così funziona, le fabbriche bisogna averle viste e frequentate. E, prima di parlare, bisognerebbe che chi teorizza queste assurdità pensasse ad almeno a tre banali conseguenze: la prima è che, se le fabbriche italiane chiudono, i clienti si rivolgerebbero a quelle estere lasciando sul lastrico milioni di lavoratori; la seconda è che senza fabbriche non ci sarebbero nemmeno viveri e farmaci; la terza è che lo smart working che va tanto di moda oggi è un processo di lavoro possibile solo per categorie privilegiate, non applicabile a quei “poveracci” che in fabbrica si guadagnano il pane quotidiano.
I processi produttivi, infatti, non sono come un pc che si accende e si spegne quando si vuole riprendendo da dove si era rimasti, ma sono organismi complessi fatti di ordini che arrivano da clienti che devono essere evasi, di percorsi organizzativi che, se si interrompono in un solo punto, paralizzano l’intera attività, di logistica indispensabile a muovere merci e persone. La fabbrica, insomma, è un organismo vivo che, se viene spento, muore. E quando si spegne il cliente si rivolge altrove, magari in Germania o in Francia, dove nessuno si sogna di chiuderle. E quando un cliente se ne va, ammesso di essere riusciti a salvare l’azienda, prima di riconquistarne la fiducia possono passare anni. Nel frattempo che fine faranno quegli operai? Qualcuno dei teorici del “chiudiamo tutto” se ne preoccupa? Qualcuno pagherà loro la cassa integrazione a vita? Chi nel caso, visto che le tasse per pagare questi costi sociali sono pagate direttamente o indirettamente dalle imprese private che questi geni vorrebbero chiudere?
Perfino nei periodi di guerra le fabbriche non vengono chiuse in maniera generalizzata, e se questo periodo è tale, va ricordato a quei geni di Fontana, Salvini e Zaia che ieri hanno sostenuto che devono restare aperti solo i negozi di alimentari e le farmacie, che per produrre cibi e farmaci c’è bisogno che le fabbriche rimangano aperte. Altrimenti chi produce questi beni di consumo? Come li si imballa? Come li si trasporta? Chi produce i macchinari medici che servono, i forni per cucinare il pane, per essiccare la pasta, e tutto il resto? Comprendiamo che i politici debbano cercare consenso e voti speculando sulla paura, ma un briciolo di buon senso a qualcuno è rimasto?
La terza sciocchezza che circola riguarda lo smart working. Se è evidente che alcune cose si possono fare con quella modalità, altre necessitano della presenza fisica di lavoratori. Come si caricano e poi si guidano i camion che debbono portare le derrate alimentari? Come si gestiscono macchinari e impianti che debbono produrre medicinali? A cosa servono gli operai nelle fabbriche se si potesse fare tutto in smart working? In un post di ieri sera, uno stimato professionista, sostenendo che non siamo poi chiamati a fare grandi sacrifici, ironizzava sul fatto che “ai nostri nonni chiedevano di andare in guerra, a noi chiedono invece di lavorare dal divano”. Certo, nelle favole è tutto bello e se si ha il privilegio di poter lavorare da casa niente di male. Ma chi gode di questi vantaggi non pensa, anche solo per un istante, a quelli che lo smart working non possono materialmente permetterselo? In tutta sincerità tempi di “se non c’è il pane date loro brioches” pensavamo fossero finiti per sempre.