Per capire questo libro di Henry Sanderson, è utile partire da alcuni elementi del percorso dell’autore. Nella sua carriera giornalistica, a Bloomberg ha seguito con particolare attenzione lo sviluppo della finanza per lo sviluppo cinese, in una ricerca culminata nella pubblicazione di China’s Superbank (2013), scritto insieme al collega Michael Forsythe, ora al New York Times. Quel libro si concentra sulla figura di Chen Yuan (figlio di un protagonista di prim’ordine del Partito comunista cinese, Chen Yun) e del suo regno di 15 anni alla guida di China Development Bank. La banca di sviluppo cinese rappresenta già tra la fine degli anni ’90 e l’inizio di questo secolo il preludio fattivo delle iniziative poi riassunte sotto il cappello della “Belt and Road Initiative”, nota a livello popolare con l’espressione “Nuove Vie della Seta”. Nella ricerca di Sanderson e Forsythe, China Development Bank attraverso le sue linee di credito emerge come uno strumento di primo piano della politica internazionale cinese dell’energia (per esempio in Venezuela), nonché come fattore rilevante per il sostegno di imprese delle telecomunicazioni come Huawei e ZTE, e per il supporto delle aziende cinesi attive nel settore solare, che anche grazie a quell’ombrello finanziario riescono a gestire meglio le oscillazioni del mercato che spazzano via la concorrenza tedesca e statunitense. La forza dell’economia cinese dopo la Grande Recessione e il modello di China Development Bank concorrono, nel 2013, a portare all’attenzione internazionale la proposta di una nuova banca di sviluppo, la Asian Infrastructure Investment Bank.
In quello stesso tornante storico, in Cina è avvenuto un altro passaggio di grande rilievo, che ancora una volta possiamo riprendere attraverso la carriera di Sanderson, il quale dopo aver seguito la finanza per lo sviluppo diviene metals and mining correspondent del Financial Times. Un ruolo che, nel momento in cui inizia a ricoprirlo, è ancora considerato desueto e fuori moda. Proprio da quell’osservatorio, Sanderson può comprendere la profondità dell’investimento internazionale della Cina in alcune materie prime, attraverso acquisizioni e accordi con Paesi produttori di cobalto, litio, nichel. A ciò si affianca la strategia cinese sulle terre rare, impiegate in numerose industrie, per esempio in ambito elettronico, petrolchimico, metallurgico, aerospaziale. A ben vedere, il tema ha già ricevuto notevole attenzione nel 2010, quando in un mondo ancora distratto dalla Grande Recessione Pechino blocca l’export di terre rare verso il Giappone nel solco di una crisi diplomatica sulle Isole SenkakuDiaoyu. La capacità industriale cinese viene usata come un’arma, in un preludio della diffusione di quella che è stata definita weaponized interdependence. Ciò genera una disputa alla WTO da parte di Stati Uniti, Unione Europea e Giappone che si protrae per alcuni anni, con una soluzione sfavorevole alla Cina (che sostiene di aver agito per la salvaguardia della sostenibilità ambientale). Anche grazie a un riferimento alla vicenda nella seconda stagione dell’allora popolare serie televisiva “House of Cards”, la questione del potere cinese nelle terre rare diviene di un pubblico più vasto di quello degli specialisti, anche a partire da alcune false convinzioni, come quella dell’effettiva “rarità” degli elementi in questione. Particolare rilievo, nella posizione cinese, ha il giacimento di Bayan Obo in Mongolia Interna, a circa 150 dalla città di Baotou, scoperto originariamente nel 1927, dagli anni ’90 considerato un territorio di sviluppo ad alta tecnologia, con un pesante costo ambientale e umano, documentato tra gli altri da Julie Klinger. La strategia cinese in relazione ai materiali, in ogni caso, non si limita all’aspetto estrattivo, sia attraverso investimenti in patria che, più di frequente, accordi internazionali con Paesi produttori in cui si stabiliscono aziende cinesi che rafforzano sempre più la loro proiezione. Infatti, quando guardiamo alla Cina occorre sempre considerare la particolare attenzione per il trattamento e per la raffinazione, con la crescita di competenze e organizzazione sui procedimenti chimici necessari per l’impiego dei diversi materiali. Oggi, Sanderson lavora come editor per Benchmark Minerals Intelligence, tra le più interessanti e innovative società di consulenza nate per l’analisi delle filiere delle materie prime critiche e della transizione ecologica. È un altro segno dei tempi che un giornalista del principale quotidiano economico al mondo vada a lavorare per questa società, fondata da Simon Moores, e non per attori più tradizionali del mondo della consulenza.
Solo in questo contesto più ampio possiamo inquadrare il libro Volt Rush, qui tradotto in italiano col titolo Il prezzo della sostenibilità. Vincitori e vinti nella corsa globale all’auto elettrica. Si tratta di un volume che, pur conservando l’impronta dell’autore per le storie giornalistiche, fornisce la prima visione d’insieme della capacità industriale della transizione ecologica, e per questo parla agli imprenditori, ai decisori e ai ricercatori. Descrive la nuova corsa a un “oro” che non va solo considerato con riferimento ai materiali, ma alla chimica e alla capacità di scala industriale. Cosa impariamo dal libro di Sanderson e dal dibattito internazionale entro cui si colloca? Anzitutto, questa non è una corsa “eterea” perché, appunto, è fatta di cose. E non si tratta di una corsa priva di conseguenze per il presente e per alcune industrie, a partire da quella della mobilità. Se la corsa alla sostenibilità sta determinando la più grande riallocazione di capitale della storia, ciò non avverrà attraverso uno schiocco di dita, ma attraverso una profonda riorganizzazione delle industrie e dei processi, con vincitori e vinti. Le storie di Sanderson ci suggeriscono anzitutto questo, all’interno della più generale competizione tecnologica tra Stati Uniti e Cina che possiamo considerare un dato strutturale del presente e del prossimo futuro. Il prezzo della sostenibilità consente di riprendere con dovizia di particolari la storia di una politica di grande successo, quella cinese. È una vicenda dove c’è molto di più dei 60 miliardi di sussidi investiti dal governo cinese tra il 2009 e il 2017, secondo la stima ripresa da Sanderson. C’è la vicenda di Wan Gang, la “tartaruga marina” cruciale dell’industria: durante la Rivoluzione Culturale, si era interessato di motori smontando un trattore, in seguito ha preso un dottorato dall’università Clausthal in Germania e poi per un decennio ha lavorato nella ricerca e sviluppo di Audi. È tornato in Cina per accompagnare lo sviluppo tecnologico cinese, come manager universitario e poi come ministro della Scienza e della tecnologia, giungendo a quest’ultimo incarico senza essere membro del Partito comunista cinese. Il rapporto tra Cina e Germania, d’altra parte, caratterizza tutta la narrazione de Il prezzo della sostenibilità, e non può essere altrimenti, vista la centralità di questi mercati, nel punto di vista scientifico-tecnologico ed economico. Lo si evince nel capitolo dedicato al “re delle batterie”, il fondatore della CATL Robin Zeng, che si apre con la fabbrica da 23 ettari costruita dalla società cinese nel paesino di Arnstadt, ma anche nei riferimenti alla storia industriale tedesca, che si intreccia con la chimica, dalla produzione industriale di litio di Metallgesellschaft nel 1923, o dal viaggio a Wolfsburg, quartiere generale di Volkswagen, delle aziende che controllano il mercato del cobalto, poiché il gigante tedesco si riforniva dai cinesi di Huayou, colpiti dalle inchieste di Amnesty International. Non mancano, poi, i riferimenti a J.B. Straubel, anima tecnologica della rivoluzione di Tesla, o ai padroni russi del nichel che esultano per la nuova vita apportata al materiale dalla diffusione delle batterie. Sanderson racconta anche il principale campione europeo della nascente industria delle batterie, l’azienda svedese Northvolt co-fondata da Peter Carlsson e Paolo Cerruti, e questa vicenda ci interroga sulle capacità europee in termini di talenti e di innovazione, sulle scelte delle aziende automobilistiche, sull’utilizzo degli strumenti finanziari pubblici e privati per partecipare a questa partita. Il libro di Sanderson è stato scritto prima che un “elefante” politico irrompa nella stanza dello scenario. Un “elefante” che era comunque prevedibile, perché le grandi trasformazioni industriali non sono strade a senso unico segnate solo dalla convenienza economica. La politica si infiltra sempre in dinamiche del genere, come è normale, e ciò avviene ancora di più in un’epoca come la nostra, di ampliamento della sicurezza nazionale attraverso la competizione tra Stati Uniti e Cina.
L’elefante in questione è ovviamente l’Inflation Reduction Act del 2022. Anche a detta dei suoi fautori e sostenitori, come l’economista Lawrence Summers, si tratta di una legge che punta ad avere effetti limitati sull’inflazione, a dispetto del nome, ma vuole avere implicazioni di grande rilievo sulla riorganizzazione delle filiere industriali della transizione energetica. Attraverso un sistema di crediti fiscali e sussidi tarati per la collocazione industriale negli Stati Uniti e nel Nord America, Washington in sostanza punta a rispondere alle storie raccontate ne Il prezzo della sostenibilità per fare dell’America una grande potenza della manifattura verde. Ciò risponde anche all’obiettivo, politico e sociale oltre che economico, del presidente Joe Biden di perseguire una rinascita manifatturiera in settori ad alto valore aggiunto tecnologico, a partire dai semiconduttori. E non dobbiamo dimenticare che tutto ciò avviene a seguito di una stagione in cui gli Stati Uniti, per esempio al contrario degli europei, hanno già assicurato il loro approvvigionamento energetico autonomo con le fonti fossili, oltre a disporre di un vantaggio significativo in termini di prezzo dell’energia. D’altra parte, anche ben prima dell’Inflation Reduction Act, era maturata negli Stati Uniti una sensibilità di sicurezza nazionale dell’energia, attraverso l’analisi della vulnerabilità delle supply chain. Per esempio, proprio riprendendo un articolo di Sanderson, un rapporto del Dipartimento della Difesa del 2018 deplorava la possibilità che, dopo essere stata messa fuori mercato dai cinesi, l’unica miniera di terre rare negli Stati Uniti potesse essere oggetto di una loro acquisizione. Negli anni successivi, anche per l’esperienza della pandemia in altri settori e per l’attacco a Huawei attraverso i colli di bottiglia dell’industria dei semiconduttori, l’analisi delle supply chain strategiche, tra cui le batterie e i materiali critici, è diventata fondamentale per la strategia di Washington. È in questo contesto che matura l’Inflation Reduction Act. Il contrattacco statunitense non si muove nel vuoto. Un’azienda come CATL è già il leader mondiale delle batterie. Un’azienda come BYD contende a Tesla (a sua volta legata alla Cina) la palma di maggiore produttore di auto elettriche al mondo. La forza della scala cinese è innegabile, anche se non bisogna sottovalutare gli effetti del rallentamento dell’economia di Pechino. Presto i mercati occidentali dovranno affrontare la questione dell’arrivo di auto cinesi molto competitive. Si moltiplicano le notizie sulla scoperta di giacimenti di materiali, dalla Svezia all’India, e sulle opportunità del loro trattamento, ma anche i progetti di alcune aziende automobilistiche (pensiamo a GM e Ford negli Il prezzo della sostenibilità Prefazione Stati Uniti) in partnership con società di estrazione di litio o aziende di batterie su cui potrebbe giungere la scure della sicurezza nazionale, come la stessa CATL. Inoltre, la “corsa all’oro” dell’Inflation Reduction Act vedrà anche problemi, truffe e fallimenti, come avviene sempre per piani di questa portata. Vediamo già l’emergere di incrinature e spigoli sulla compatibilità delle varie politiche industriali regionali.
Questo scenario chiama in causa anche l’Europa e l’Italia. Che ne sarà di noi? Anzitutto, attraverso libri come quello di Sanderson possiamo diventare consapevoli di quello che sta succedendo. La sensazione è che la consapevolezza del contesto, nell’ambito europeo, sia arrivata in ritardo. In questo senso dobbiamo guardare criticamente l’esperienza del cosiddetto European Green Deal, l’insieme di iniziative e di intenzioni annunciate e approvate nel 2019 e nel 2020 con l’obiettivo di rendere l’Unione Europea leader nella strada verso la neutralità climatica. Viene da chiedersi se queste iniziative, volute soprattutto dal vicepresidente responsabile Frans Timmermans, abbiano tenuto conto del contesto e del mondo in cui ci troviamo. Viene da interrogarsi, davanti a un’accesa competizione industriale dove ci sono rischi molto forti, sull’utilità di progetti di dubbia coerenza, come l’avvio di un Nuovo Bauhaus Europeo per «immaginare e costruire insieme un futuro sostenibile e inclusivo che sia bello per i nostri occhi, le nostre menti, le nostre anime». Come se sponsorizzare alcune installazioni di arte contemporanea ci renda improvvisamente competitivi in queste filiere o in grado di ottenere il favore dei giovani, i quali giustamente si interrogano sul futuro dell’umanità in questo Pianeta. Se ripercorriamo questi anni con onestà intellettuale, ci rendiamo conto che le cose non sono così semplici e quindi è stato commesso un errore. L’errore europeo è stato presentare un programma privo di adeguata consapevolezza industriale, non supportato in modo appropriato dal dialogo con alcune industrie di riferimento, a partire da quella chimica. L’annuncio da parte della Commissione Europea di un Industrial Green Act riconosce questo problema: non possiamo diventare “verdi” né schioccando le dita né facendo finta che la strada verso la neutralità climatica sia priva di una dimensione industriale, che richiede uno studio attento e profondo delle supply chain di riferimento, per costruire capacità europee adeguate alla dimensione dei nostri mercati. Per evitare di agire solo da clienti. Nella consapevolezza che è più importante conoscere una filiera – e spostare in modo intelligente (ma non pigro) alcuni soggetti industriali a svolgere un ruolo in essa – del mero rispetto isolato di un target che si ripete o per ragioni retoriche e politiche.
E che, in questa “corsa alla sostenibilità”, dovremo continuare a investire nella ricerca di nuove soluzioni, perché non è detto che una sola tecnologia sia l’approdo definitivo, anche se ciò non deve limitare, a livello europeo e italiano, l’attenzione per trovare un ruolo in industrie che hanno dimostrato la propria maturità e che hanno già attivato alcuni ecosistemi di innovazione, come mostra il caso svedese. Allo stesso tempo, tutti i processi industriali dovranno fare i conti con la questione ambientale, con fenomeni come gli eventi climatici estremi e l’insostenibilità di alcuni consumi idrici, che saranno sempre più rilevanti. Tutto questo, come ricorda il titolo di questo libro in italiano, ha e avrà un prezzo. Il prezzo di tenere insieme la capacità di vincere sul mercato e di considerare la sicurezza nazionale che si intromette e intrufolerà anche in futuro nelle dinamiche di mercato.
*Alessandro Aresu è consigliere scientifico della rivista Limes e direttore scientifico della Scuola di Politiche