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La prima ambientazione è Milano, in occasione di Book City: calendario pieno di cerchietti e sottolineature, continue rinunce e desiderio di essere ubiquo. Il sabato, verso sera, la mia ragazza dice che sta andando al Planetario: “Presentano il libro di Sandra Savaglio. Vieni con me?”.
Sandra Savaglio: astrofisica, partita da Cosenza nel 1991, ha quasi duecento pubblicazioni ed è Fellow e Senior Research Scientist allo European Southern Observatory di Monaco, alla John Hopkins University e allo Space Telescope Science Institute di Baltimora. Nel 2004 Time le ha fatto uno di quei regali che incornici con piacere: una sua foto in copertina, accompagnata dal titolo How Europe lost its science stars.
Poche settimane dopo l’evento al Planetario di Milano, cerco traccia di quella copertina nel suo ufficio vista prato dell’Università della Calabria, dove quattro anni fa è tornata per insegnare nel dipartimento in cui ha studiato. Vorrei cominciare l’intervista parlandone, ma il quadretto che mi aspettavo non è appeso da nessuna parte. Allora cambio punto di partenza, e glielo dico: la presentazione di Tutto l’universo per chi ha poco spazio-tempo, il suo primo libro divulgativo appena uscito per Mondadori, è stata la più bella a cui abbia mai partecipato.
Davvero? Mi fa piacere.
Sì. E io di astrofisica non so niente.
Boh, sarà dipeso dal tipo di chiacchierata. Chiara [Valerio, n.d.a] e Marco [Malvaldi, n.d.a.] sono stati bravissimi.
Partiamo dal libro. Vorrei che mi dicessi come è nato, che tipo di spinta o necessità hai sentito prima di metterti a scrivere.
Nessuna. Non ci stavo proprio pensando. All’inizio del 2016 mi hanno contattato quelli della Mondadori e mi hanno chiesto se fossi interessata a scrivere un libro divulgativo. Ho risposto “Ma siete sicuri?”.
Perché?
Be’, io non sono una scrittrice. Loro mi hanno detto «Vediamo, inviaci qualcosa». Così ho scritto cinque o sei pagine sui neutrini. O meglio: sull’esplosione di una supernova da cui è stato possibile rilevare dei neutrini. Alla fine mi ha preso l’entusiasmo e ho scritto trecento pagine.
L’entusiasmo?
Sì. Ma perché, sai, è stata un’occasione per approfondire tutti gli argomenti che, in questi anni, anche se erano interessanti, ero riuscita solo ad accarezzare. Per un po’ mi ci sono dedicata, mettendo insieme appunti raccolti nel tempo su cose che ho sempre considerato particolarmente significative sul piano scientifico.
La richiesta specifica era quella di scrivere un libro divulgativo. Com’è visto dal mondo accademico il tentativo di far arrivare a più persone possibili il discorso scientifico? Te lo chiedo perché ho la sensazione che, come in tutti i campi, da parte di chi fa ricerca per lavoro ci sia una forma di tutela per il proprio impegno che inevitabilmente finisce per alzare un muro.
Adesso ce lo chiedono. In ambiente accademico si chiama “Terza missione”. Lo scienziato e il ricercatore non dovrebbero più limitarsi a fare ricerca e insegnare, ma sono invitati a portare in giro il più possibile quello che sanno. Ed è giusto, no? Non è solo un dovere, ma anche un piacere.
Mi pare coincida con una riscoperta pop dello scienziato, non credi? Sai che proprio in queste settimane si sta scommettendo su chi sarà raffigurato nelle nuove banconote da 50 sterline?
L’indecisione è tra Alan Turing e Stephen Hawking.
Mi porti un caso britannico. In Italia la scienza è sempre stata considerata una forma di cultura di serie B. Non è mai stata unificante.
Adesso, però, c’è un assist da parte della narrativa e del cinema. Il personaggio-scienziato piace e appassiona. Penso ai film su Turing e Hawking, non a caso, o alla prima stagione della serie Genius.
Sì, alcune forme d’arte un tempo molto lontane sono diventate grandi sostenitrici della ricerca scientifica. Sarà perché, ultimamente, questa storia della divulgazione è molto sentita. Negli USA tutti gli istituti importanti, anche la NASA, hanno delle sezioni che, di fatto, imbastiscono storie per il grande pubblico. Ti aggiornano sulle ultime scoperte, perlopiù. A volte ne viene fuori una cosa un po’ “bombastic”, esagerata, ma che rispetta e in un certo senso aiuta il nostro lavoro. D’altronde non esiste ente o sistema che, dopo averti dato dei soldi, non ti chieda di spiegare se sono stati spesi bene o meno. Anche in Europa. Conosci Gabriella Greison?
No.
È una fisica che si sta dedicando a raccontare tramite romanzi o spettacoli teatrali le vite dei grandi scienziati. Ci sono alcuni suoi lavori che ti chiariscono quanto fossero famosi, proprio in un’ottica di riconoscimento pubblico, personaggi come Marie Skłodowska Curie e Albert Einstein. Ancora oggi Einstein lo conoscono tutti, no? Un motivo, scoperte a parte, ci sarà. Forse il linguaggio? Rendere incomprensibile quello che hai scoperto non ha senso, e denota che stai facendo male il tuo lavoro, che prevede anche una fase esplicativa. Essere scienziati significa svelare dei misteri. E “svelare” significa anche “mostrare”, rendere nota la verità.
Questa dello svelamento è una presenza molto forte nel tuo libro. Leggendo, ci si imbatte in un continuo chiarire e riconsiderare cose e parole. Ogni termine rubato alla scienza e sfibrato dalla quotidianità ritorna come concetto: leggo di “Spazio” e “Tempo” e improvvisamente mi accorgo di parlarne, nella vita quotidiana, in maniera impropria.
È come fare un viaggio. Immagina di essere su una barca a vela, in mezzo all’oceano: sai da che porto sei partito ma non sai dove attraccherai. Intanto, però, ti senti parte dell’oceano, un tutt’uno con l’acqua, e quella situazione diventa familiare. Cioè, sai che sei circondato dal mare tutti i giorni e il resto, il porto, non esiste più. Da qualche parte, però, nello stesso momento, c’è qualcuno che sta viaggiando in treno e prova la stessa cosa, questa sensazione di ambientamento, con, che ne so, la locomotiva. Ecco: a te sembra di parlare in modo improprio rispetto al linguaggio che hai trovato nel libro perché, rispetto a me, stai semplicemente compiendo un altro viaggio. Tra l’altro come metafora torna molto utile: anche io, se devo prendere un treno, mi limito a guardare l’orologio, mica mi metto a considerare, solo perché sono una fisica, che il treno si muove rispetto a me e il tempo scorre in modo diverso e devo sincronizzare l’orologio. La parola “Tempo”, se la pronuncio da scienziata ha un senso, se la nomino da viaggiatrice in ritardo ne ha un altro. In entrambi i casi si riferisce a quella cosa lì, e non può essere sbagliata.
Il libro fa passare l’idea di una Scienza costretta a confrontarsi continuamente con la fantasia. Anzi, quasi generata dalla fantasia. Ed è così, leggendo mi sono accorto anche io del perché, ma per qualche ragione uno pensa alla fisica e allo sforzo immaginifico come due cose diametralmente opposte. Quanto conta l’immaginazione nella Scienza, nel processo di ricerca?
Tantissimo. Come puoi non immaginare? Senza immaginazione non ci sarebbe la spinta, la voglia di scoprire. Ruotiamo intorno al Sole, ok, ma siamo piantati sulla Terra e, almeno per ora, possiamo arrivare al massimo su Marte. Ma come ci siamo arrivati? E, da qui in avanti, come ci sposteremo? Dobbiamo tutto a un composto di fantasticheria, tecniche di calcolo e matematica. Il raggiungimento di risultati e spiegazioni passa da questo processo.
Paolo Nespoli, qualche tempo fa, spiegava una cosa del genere a proposito del fatto che c’è un limite alle missioni spaziali che possiamo fare in questo momento. Credo si riferisse ad Alpha Centauri. Il senso del discorso era: per come siamo messi adesso possiamo spingerci fino a un certo punto, non oltre. Per arrivare più in là dobbiamo inventarci qualcosa di nuovo, ripensare il concetto di viaggio. Sognare ancora.
Sì. Be’, il viaggio fino ad Alpha Centauri richiede molto ma molto di più della durata intera della vita di un un essere umano. Sarebbe un tentativo ridicolo, come pensare di andare sulla luna coi pattini. Alpha Centauri è a più di quattro anni luce, e la luce ci mette quattro anni, e noi possiamo viaggiare al massimo a 10 km al secondo – che è trentamila volte meno, e di sicuro non possiamo campare centomila anni. Un grosso limite, no? Stanno pensando di mandarci una nano-navicella, una cosa grande quanto un’unghia e quindi, potenzialmente, molto veloce. La possibilità è sempre più concreta. Ma poi?
In che senso?
Dico, se poi arrivi su Alpha Centauri e non c’è niente e nessuno? Hai fatto un viaggio a vuoto?
Immaginate che non ci sia nessuno?
50 e 50. Il paradosso è che se non ci arriviamo non possiamo saperlo.
C’è un aspetto che attraverso il libro avevi più impellenza di comunicare, chiarire o far capire?
L’ultimo capitolo, Origine e creazione dell’universo, è stato, da scrivere, il più impegnativo e affascinante. Ti dice le cose che più o meno tutti i libri raccontano quando si parla di come, a un certo punto, siamo venuti fuori, e quindi volevo che non fosse banale, ma al tempo stesso chiaro e approfondito. Poi, sai, chi può dire cosa interessi di più alle persone? Magari la storia della vita sugli altri pianeti. Lo capisco.
Prima parlavamo di svelamenti. Quanto conta nella missione di uno scienziato la curiosità dello svelare un mistero, e in che parte invece ci si limita all’esecuzione o all’approfondimento di quello che hanno scoperto gli altri?
La curiosità è tutto. La chiave di tutto. Scoprire la verità, portare avanti un’indagine e risolverla, anche se l’oggetto dell’indagine sembra insignificante, è il senso del nostro lavoro. Se perdi la curiosità resti senza motivazione. Crescendo può succedere. Certo, lo spazio dà ancora molte soddisfazioni in questo senso perché c’è sempre tanto da scoprire, proprio in termini di confini non superati, ma bisogna essere curiosi non soltanto rispetto al cielo e ai viaggi, ma anche rispetto al modo di studiarli, senza cedere alla standardizzazione.
A fine settembre hanno fatto molto discutere le parole del fisico Alessandro Strumia che, durante il suo intervento nel corso di una conferenza organizzata dal CERN sulle pari opportunità in campo scientifico, ha provato a dimostrare che sono gli uomini, e non le donne, a essere discriminati nel mondo accademico. Ha scritto «Physics [was] invented and built by men, it’s not by invitation».
Sì, poi il CERN si è dissociato.
Anche nella Fisica c’è discriminazione di genere?
Eccome. Non si può negare. C’è stato un tempo in cui le donne non potevano andare all’università, e se ci andavano o erano malviste o dovevano nascondersi per non distrarre i maschi. È assurdo essere scienziati e pensare queste cose, ma è successo. È un fenomeno umano. Essere una persona di scienza non ti isola da idiosincrasie, illusioni, credenze, cose così.
Tu sei credente?
No.
Pensi, in assoluto, che sia possibile essere persone di scienza e credere, allo stesso tempo?
Ma sì. Ci sono molte persone intelligentissime che pregano. Ma anche questo è un fenomeno umano, circoscritto alla nostra esperienza. Perché i cani non pregano? Se muoiono vanno all’inferno, vanno in paradiso?
Ultimamente, in Italia, si parla molto di titoli, di revisionismo scientifico, di incompetenza al potere. Sembra che ci sia un rigurgito d’orgoglio dell’ignoranza che tende a mettere sullo stesso piano opinioni personali e scienza, cultura, formazione accademica. Solo qualche tempo fa Laura Castelli, sottosegretaria del Ministero all’Economia, ha detto che chi ha studiato, rispetto a chi non lo ha fatto, non è necessariamente più attendibile. Cosa ne pensi? È una cosa che hai percepito, rispetto all’estero, da “ritornata”?
Non stiamo vivendo un grande momento, questo mi pare chiaro. Ma il problema è internazionale, non solo italiano. Forse dipende dal fatto che tutti abbiamo accesso a ogni tipo di informazione. Ti piace Internet? Be’, questa è la conseguenza. Per un po’ saremo circondati da arroganti. Ma la vita è fatta di cicli, momenti come questi sono necessari per rinascere.
Alla passione per le stelle come sei arrivata?
Dallo studio. Mi piaceva studiare fisica, sia al liceo che all’università, in questo stesso dipartimento, ho avuto ottimi insegnanti. Questo è molto importante. Poi mio padre era appassionato di matematica, a casa si facevano spesso ragionamenti scientifici. La goccia è stato Esplorando la Terra e il cosmo, di Isaac Asimov. Quattrocentotrenta pagine, lo conservo ancora.
Segui la fantascienza?
Mah, non tanto. Mi era piaciuto Matrix, tempo fa. Mentre non mi ha fatto impazzire Interstellar. Giuro, la pillola blu e la pillola rossa mi sembrano più credibili di quel continuo viaggiare tra buchi neri. Viaggi tra i buchi neri e torni indietro, tutto intero. Va bene “fantascienza” ma fino a un certo punto. Ho un buon ricordo di “Spazio: 1999”, la serie degli anni ’70.
Parliamo di spazi terrestri, invece. A quelli che hai lasciato, a quelli tra cui ti dividi. Ci pensi mai?
Ci penso sempre, anche perché me lo chiedono continuamente.
Cosa ti chiedono?
Se mi sono pentita di essere tornata. Mi dicono “Ma come, hai studiato e lavorato in posti dove è tutto funziona alla perfezione, e torni in Italia?”. Ma non è detto che ciò che è perfetto ti porti alla felicità. Io sono stata fuori per molto, moltissimo tempo. E ho imparato che se qui non funzionano alcune cose, e questo non lo possiamo negare, altrove non ne funzionano altre. Tutto è relativo. Quello italiano non è certo l’unico sistema capace di amareggiarti. Certo, capisco che sia piacevole percorrere una strada priva di buche, come succede in Germania. Comodamente.
Ma se ti accomodi non rischi di perdere spinta di cui parlavamo prima, il senso della missione? Tornando oltrepassi il confine degli stereotipi, che per altri e soprattutto in Calabria richiede gli stessi tempi che ci metterà la nano-navicella a raggiungere Alpha Centauri.
Sì. La gente pensa che qui mi sia venuta a sacrificare, come se bastasse essere stati fuori per essere meglio degli altri, o essere rimasti per non valere niente. Ma io, qui, sono circondata da colleghi bravissimi e da una fibrillazione che, in altri posti, non ho percepito. I ragazzi partono con meno possibilità pratiche, e quando li guardi, quando li ascolti sai che si stanno davvero giocando qualcosa, che non si lasceranno scappare nessuna opportunità. Questo mi appassiona. Poi il calore, l’umanità: più cresci e più ne percepisci il valore. L’Italia, il sud Italia, in questo senso è una miniera d’oro. Me ne accorgo quando ne parlo con Uta, la mia compagna. Lei mi fa proprio vedere le cose in una maniera diversa.
Cioè?
Lei è di Amburgo, e lavora a Monaco. Due fra le città in cui, secondo molte statistiche, si vive meglio, nel mondo. Eppure quando è qui è felice, parla con tutti, non vede l’ora di scambiare baci e abbracci, si commuove. C’è un libro di Carlo Rovelli che si intitola Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza. Io le amo, le regole. Ma oggi – dopo aver viaggiato, e sofferto, e osservato le differenze – so che è la verità.
*Esquire, 2 gennaio 2019