State tutti a casa. Tutto chiuso. D’accordo, la situazione è inedita e richiede provvedimenti inediti. E gravi. C’è una parte di paese che sembra vivere una ininterrotta adolescenza. Tende a sfuggire alle responsabilità. Per cui se ti spiegano che devi stare a casa pensi che sia una cosa che non ti riguarda. Che si può essere furbi e fregarsene. Vado a sciare lo stesso, non rinuncio allo spritz ammassato. E allora diventano indispensabili provvedimenti più severi. E repressivi.
Ma penso come si possa sentire quella parte del paese che viene invitata a stare a casa e non può starci. Perché deve lavorare. Gli si spiega la bellezza di leggere un libro, di giocare a carte in famiglia, di guardare un bel film. Magari, pensano. Poi c’è chi sta a casa perché ha perso il lavoro, perché è un precario in settori che si fermano, partite Iva vere o mascherate. E l’invito a stare a casa solleciterebbe risposte inurbane.
Insomma state a casa, chi può e deve farlo, ma con la consapevolezza che una parte del paese a casa non può e non deve stare. Per consentire all’altra parte di stare a casa, trovando ciò che gli serve per la vita quotidiana: alimentari, farmacie, salute, servizi, ecc. Nella comunicazione bisognerebbe pensare anche a questi. Non è un paese fatto solo di pensionati e studenti, anche se sono tanti.
Perché gli ospedali sono al fronte, ma possono reggere l’urto perché c’è chi garantisce la lunga filiera del buon funzionamento: la logistica, le forniture medicali, la pulizia, la lavanderia, i tanti servizi esternalizzati, il mangiare di pazienti e lavoratori, ecc. E naturalmente deve reggere l’infrastruttura sociale: servizi pubblici, banche, poste, acqua, luce, gas, nettezza urbana, ecc. La retorica dello state a casa (la parte retorica, intendiamoci) genera necessariamente, come stiamo vedendo, la reazione di chi deve andare a lavorare per non fermare del tutto la macchina produttiva. Allora a casa anch’io.
C’è il diritto dovere delle istituzioni pubbliche di definire regole di comportamento generali per affrontare emergenze. Servono tuttavia da un lato autorevolezza, dall’altro la capacità di applicare rigorosamente le regole a sé stessi.
Diciamo che sotto questo profilo la retorica del “federalismo” non ha dato prove ottime di sé. Pur con sbandamenti iniziali mi sembra di poter dire che il Presidente del Consiglio abbia tenuto un discorso pubblico più coerente rispetto a certe esternazioni di qualche governatore, molto ondeggianti tra il lasciateci lavorare ed il chiudere tutto. Meglio Giuseppi dei governatori. E anche l’opposizione, pur in un quadro di assunzione di responsabilità, non brilla per coerenza. Il 29 febbraio Salvini invitava a riaprire tutto, dai musei alle fabbriche, il 12 marzo chiede di chiudere tutto, molto di più.
Dire agli altri ciò che è necessario che facciano, ma poi fare in prima persona ciò che si può e si deve fare. Mi colpisce che nelle disposizioni non ci siano norme rigorose sulla chiusura degli uffici pubblici non essenziali. Regioni, province, grandi comuni hanno enormi margini per fare stare a casa i propri dipendenti, senza sensibili sofferenze per i cittadini, né conseguenze sociali perché gli stipendi correrebbero lo stesso Si potrebbero chiudere gli uffici che non erogano servizi essenziali, prorogare eventualmente scadenze, usare ampiamente il lavoro da casa (senza semplificazioni superficiali…), usare lo strumento delle ferie obbligatorie. Non mi sembra che vi sia una programmazione nel settore pubblico che riduca al minimo necessario l’impiego di personale. Biblioteche e musei chiusi, con personale che deve ancora recarsi al lavoro, servizi comunali e regionali che non hanno più l’afflusso normale ma che vedono la forza lavoro ancora intatta, ecc. Qui c’è molto da fare.
C’è da chiedersi quale sarà la conseguenza di questo stress, che è insieme economico, psichico, sociale. Difficile fare previsioni. Siccome bisogna essere ottimisti potremmo pensare che ci saranno anche le conseguenze positive, accanto alle pesantissime conseguenze economiche, specie per alcuni settori a partire dal turismo.
Ad esempio le aziende rifletteranno con più attenzione sul valore di una diversa organizzazione del lavoro che sfrutti pienamente le opportunità offerte dalle tecnologie.
Nel discorso pubblico forse tornerà l’apprezzamento della competenza come virtù necessaria della politica. Forse finirà l’innamoramento per uno vale uno, il popolo contro l’élite, ecc. Ci si renderà conto che nell’arena della politica non servono improvvisati attori ma un severo esercizio di competenze e di solide e lungimiranti leadership. Del resto un vecchio marpione della prima repubblica, come Giancarlo Pajetta, affilato polemista del Partito Comunista, una volta disse: “ciò che rende diverso un politico da un cretino è che il cretino crede alla propria propaganda” E se lo diceva lui…E questo vale anche per i retori del chiudiamo tutto.